Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 10-03-2011) 19-07-2011, n. 28761 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Venezia ha confermato la responsabilità di A.I. per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 per aver concorso nella detenzione a fine di spaccio di gr. 25 di cocaina, reato consumato il (OMISSIS); in applicazione della L. 21 febbraio 2006, n. 49 ha ridotto la pena inflitta in primo grado a due anni ed otto mesi di reclusione ed Euro 120000,00 di multa.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell’imputato. Con il primo motivo deduce mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento e dagli atti del procedimento in punto di asserita prova della finalità di spaccio, art. 606 c.p.p., lett. E) – nonchè inosservanza della norma processuale di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3 in quanto, secondo il ricorrente, la Corte d’appello, nella sentenza impugnata, ne ha fondato l’affermazione di responsabilità esclusivamente sulla base della chiamata in correità da parte della coimputata N.G. A., senza esaminare il motivo di appello con il quale era stata censurata la violazione, da parte del Giudice di I grado, della norma di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3 e in particolare dei criteri valutativi che il legislatore ha dettato per valutare l’efficacia probatoria della chiamata di correo. Con il secondo e terzo motivo deduce mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento e dagli atti del procedimento in ordine alla mancata concessione dell’attenuante del fatto di lieve entità e di quella della collaborazione previste, rispettivamente, da comma 5 a comma 7 dell’art. 73. Lamenta ancora che è stata omessa ogni valutazione sulla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6 e che la pena finale, alla luce delle attenuanti sopra richiamate dovrà essere rideterminata e ridotta.

Motivi della decisione

1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto deduce motivi manifestamente infondati e non specifici.

2. Secondo il combinato disposto dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 581, comma 1, lett. c), l’impugnazione deve infatti contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta. La previsione ha ragion d’essere nella necessità di porre il giudice della impugnazione in grado di individuare i capi e i punti del provvedimento che si intendono censurare e presuppone che le censure stesse siano formulate con riferimento specifico alla situazione oggetto di giudizio e non già con formulazioni che, per la loro genericità, si attagliano a qualsiasi situazione. La sanzione trova applicazione anche quando il ricorrente nel formulare le proprie doglianze nei confronti della decisione impugnata trascura di prendere nella dovuta considerazione le valutazioni operate dal giudice di merito e sottopone alla Corte censure che prescindono da quanto tale giudice ha già argomentato. Nel presente caso il ricorrente censura la sentenza impugnata sulla base della mera prospettazione dei vizi denunciati, senza riguardo a quanto motivatamente e del tutto correttamente la sentenza impugnata ha già osservato in ordine ai vari profili ancora riproposti. Deve in particolare ricordarsi che la responsabilità del ricorrente è stata ritenuta sulla base di un compendio probatorio più ampio delle sole dichiarazioni della coimputata, e precisamente sulla base della diretta osservazione del contegno tenuto dal medesimo nel periodo di controllo attuato dagli agenti e nella inverosimiglianza della tesi circa la sua inconsapevolezza della natura delle "palline" che la coimputata gli lanciava. Anche il diniego delle attenuanti è stato correttamente motivato dalla corte di appello con riferimento al dato quantitativo, tale da escludere di per sè un giudizio di lieve allarme sociale, ed all’assenza di quel contributo determinante alle indagine che è richiesto per la collaborazione. Alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento nonchè del versamento di una somma in favore delle cassa delle ammende che, in considerazione dei motivi dedotti ed anche dopo la sentenza della Corte Cost. n. 186 del 2000, stimasi equo fissare in Euro mille.

P.Q.M.

– dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al versamento di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-12-2011, n. 28243 Passaggio ad altra amministrazione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) chiede l’annullamento della sentenza di appello, che ha affermato il diritto della parte intimata, trasferita al Ministero, al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza.

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto, ma considerando anche eventuali trattamenti più favorevoli su altri profili, nonchè eventuali effetti negativi sul trattamento di fine rapporto e sulla posizione previdenziale.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e art. 52, n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate.

La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Ciò comporta che il ricorso per cassazione del Ministero che denunzia violazione del complesso normativo costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice di merito, il quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà verificare, in concreto e nel caso specifico la sussistenza, o meno di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento ed accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale verifica. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-05-2011) 12-09-2011, n. 33752

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza del 13 aprile 2010 la Corte di assise di appello di Messina confermava quella resa il 17 novembre 2008 dal GUP del Tribunale della stessa sede che aveva condannato F.C. e S.P. alla pena di anni trenta di reclusione ciascuno perchè ritenuti colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 575 c.p., art. 577 c.p., comma 1, n. 4 e L. n. 203 del 1991, art. 7 perchè, in concorso tra loro e con altri (già condannati per lo stesso delitto ovvero imputati della medesima accusa) il F. come comandante del delitto ed il S. come suo coautore materiale, cagionavano la morte di St.An., contro il quale T.M. aveva esploso numerosi colpi sparati con due diverse pistole; in (OMISSIS).

Con la stessa sentenza veniva altresì condannato alla pena di anni dodici di reclusione, grazie all’applicazione dell’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, Sa.An., anch’egli imputato del medesimo reato omicidiario con il ruolo di incaricato della predisposizione delle armi utilizzate per la missione di morte.

In relazione all’omicidio per cui è causa risultano adottate, anteriormente all’inizio dell’azione penale relativa al presente processo, numerose decisioni giudiziarie, richiamate ed utilizzate dal GUP a sostegno della decisione di condanna ed evocate dalle difese appellanti al fine di screditare l’attendibilità dei collaboratori i quali, assai numerosi, compaiono in questa e nelle altre vicende giudiziarie.

Richiamano in particolare, sia il giudice di prime cure quanto la Corte territoriale, la sentenza 24 maggio 2004 della Corte di appello di Reggio Calabria, che ha riconosciuto colpevole T.M. C. per il delitto St., condannandolo alla pena dell’ergastolo, e la precedente sentenza del 15 giugno 1999 della Corte di assise di Messina, e relativa pronuncia di secondo grado, nell’ambito del noto procedimento "Peloritana 2", avente ad oggetto una serie di omicidi riconducibìli alla guerra mafiosa tra vari gruppi messinesi, tra i quali quello di St.An., dappoichè in forza delle medesime si è giunti all’accertamento delle definitive responsabilità di Sp.Lu., F. S., Tu.An. e M.G. in ordine al fatto di sangue del quale si occupa la presente vicenda processuale.

Nel (OMISSIS), infine, sono state registrate nuove collaborazioni giudiziarie, quelle di T.M.C., condannato all’ergastolo, come detto, per l’omicidio in parola e di G. N., dichiarazioni poste dai giudici di merito a fondamento delle condanne impugnate in questa sede di legittimità. 1.2 Riscontrando i gravami di merito, la Corte di assise di appello ha rilevato che:

– le dichiarazioni del T., esecutore materiale del l’omicidio, si appalesano estremamente particolareggiate e precise, sia con riferimento alla fase preparatoria, sia con riferimento alla esecuzione vera e propria ed ai momenti successivi (la sentenza ripropone partitamente dette dichiarazioni);

– anche le dichiarazioni del G. risultano rilevanti e significative e confermano sostanzialmente, riscontrandole, quelle del T.;

– da esse e dagli esiti processuali innanzi evocati si traggono gli elementi di prova a carico sia di S.P., l’altro catanese che con il T. avrebbe eseguito materialmente l’omicidio, accompagnando in macchina il complice, sia a carico del F., il quale, stretto sodale di M.G., decise con questi la soppressione di St.An., impegnandosi poi nella organizzazione del delitto e nella copertura successiva del M. stesso e degli esecutori materiali;

– le dichiarazioni dei collaboratori sono credibili ed attendibili per come sono esse maturate e per i riscontri dalle quali sono confermate (puntualmente indicati per entrambi i collaboranti nella sentenza impugnata);

– le discrepanze difensivamente valorizzate dagli appellanti tra le dichiarazioni rese dal T. e dal G., nonchè tra queste ultime e quelle acquisite nei precedenti processi a carico degli altri attori della vicenda, sono pienamente giustificate sia dal ruolo da ciascuno ricoperto nei fatti di causa e nel gruppo malavitoso di appartenenza, ragione per la quale ognuno conosce segmenti della vicenda e momenti di essa, sia per la modesta portata delle discrepanze rispetto alla complessiva ricostruzione eseguita dal T., che non può essere posta nel nulla da contraddizioni di poco spessore, soprattutto se poste a confronto con l’importanza e la dimensione del racconto da questi reso;

– le dichiarazioni del G. sfuggono alla disciplina di cui all’art. 195 c.p.p., come difensivamente sostenuto, sia perchè non propriamente de relato, in quanto notizie apprese nel circuito malavitoso di appartenenza nell’ambito delle – conoscenze che il sodale acquisisce nel suo gruppo, sia perchè apprese dal M., il quale non può essere chiamato a confermare dichiarazioni contra se;

– tutti gli atti giudiziari danno conferma di una doppia causale dell’omicidio, da una parte la guerra tra gruppi per la spartizione dei proventi delle bische clandestine, dall’altra quella più personale del M., confermata dal T. e da questi raccontata nello specifico insieme al coinvolgimento anche in questo movente del F. quale amico e sodale del M.;

– irrilevante il giudizio del GIP reso in precedenza in sede di fase cautelare, giudizio di insufficienza indiziaria a carico del F., sia per l’autonomia dei due momenti decisionali, sia per la maggiore esaustività del quadro probatorio a disposizione dei giudicanti della fase ordinaria.

2. Avverso la sentenza di secondo grado ricorrono per cassazione gli imputati F. e S..

2.1 Nell’interesse di F.C., i difensori di fiducia sviluppano tre articolati motivi di impugnazione.

2.1.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione in ordine a plurimi profili della sentenza impugnata.

A. Il primo di tali aspetti riguarda il valore probatorio delle dichiarazioni dei collaboranti T. e G. e su detto punto i difensori, in particolare, deducono che:

– la Corte di merito avrebbe fatto uso errato dei principi giurisprudenziali in tema di valutazione frazionata della chiamata in correità e di chiamata in reità de relato:

– le chiamate in reità e quelle in correità utilizzate dai giudicanti, peraltro secondo il metodo della valutazione frazionata, divergono e contrastano tra di loro in relazione ad aspetti della vicenda omicidiaria da ritenersi essenziali e fondanti, come la causale, la dinamica dell’omicidio, le armi usate, la fonte di conoscenza;

– come primo esempio giova rammentare: che per il G. il movente dell’omicidio è stato dato da questioni di droga tra lo St. e M., movente mai indicato da alcun altro, che il M. guidò l’autovettura della missione omicida, che a bordo vi erano due persone tra cui un certo P., che i due ripararono a casa del L., mentre il T. da indicazioni tutte diverse su detti punti, a cominciare dal movente, individuato in uno screzio tra un parente del M. e la vittima, mentre nel giudicato "Peloritana 2" il movente è dato da contrasti tra clan malavitosi contrapposti per la divisione degli introiti delle giocate clandestine;

– tanto per evidenziare differenze sostanziali superate attraverso il metodo di privilegiare "di fiore in fiore", tra chiamate in correità e chiamate in reità, singoli particolari coincidenti, metodo mai affermato come legittimo dalla giurisprudenza di legittimità;

B. Valutazione delle attendibilità delle collaborazioni di T. e G. e critica dei riscontri esterni individuati dai giudicanti: T.M..

– il T. si è pentito pochi giorni dopo la definitività della sua condanna all’ergastolo per l’omicidio St., e, quindi, dopo cinque gradi di giudizio, nel corso dei quali ha tentato di lucrare una ingiusta assoluzione senza mai sentire afflati collaborativi;

– palese pertanto il suo interesse alla collaborazione, identificabile nel fine di lucrare i benefici penitenziari, dato che dimostra la sua mancanza di lealtà verso l’autorità giudiziaria;

– significativa di tale giudizio è l’interrogatorio reso dal T. il 24 giugno 2005, nel quale egli parla dei metodi manipolatori delle dichiarazioni collaborative apprese in carcere, facendo esempi in tal senso;

– anche il GIP dott. Arena nell’ordinanza reiettiva di misura cautelare ha giudicato con perplessità le dichiarazioni del T., perplessità indotte dal tempo in cui le dichiarazioni furono rese, dall’assenza di autonomia nelle medesime, dalla contraddittorietà con altri narrati, dalla loro illogicità intrinseca sui modi strambi con i quali la missione omicida sarebbe stata eseguita;

– T. con le sue dichiarazioni persegue il chiaro scopo di scagionare M. e per questo accusa F. di essere il mandante dell’omicidio ed afferma ripetutamente, nell’interrogatorio del 24 giugno 2005, che il M. stesso non voleva affatto l’omicidio;

– da questo passo si deduce che il M. non voleva l’omicidio e che il F. lo ordinò per fare un favore a chi non lo voleva:

palese la illogicità del costrutto collaborativo non considerato per nulla da giudici di merito;

– non solo, il T. non ha riconosciuto il M. in fotografia, mentre ha immediatamente riconosciuto il F.;

– il T. omette altresì di raccontare come dall’aereoporto di (OMISSIS) egli con M. raggiunse (OMISSIS) e come tornò il M. in aeroporto per tornare a (OMISSIS) e chi l’accompagnò;

– da quanto detto appare palese l’intento del T. di screditare chi l’aveva sin lì accusato e di rinsaldare l’amicizia con il M.;

– occorre altresì sottolineare con forza che le dichiarazioni del T. non sono caratterizzate neppure dalla necessaria autonomia, giacchè il propalante ha partecipato a tutto il giudizio conclusosi con la sua condanna contrapponendosi, processualmente, a quanti, viceversa, lo accusavano, come Sp., T. e Fe.;

– manca su questo punto la motivazione dei giudici di merito nonostante i reiterati e diffusi rilievi difensivi;

– non spiega la Corte di merito una serie di incongruenze ed illogicità evidenziate dalla difesa, quali il mandato omicidiario dato a persona appena conosciuta (è T. che dice che non conosceva nè M. nè T.) per un favore da fare a M. che tale favore non voleva affatto, mancata conoscenza che rende inverosimile un’altra circostanza decisiva, quella dell’appartenenza del T. al clan Favara e, dunque, al clan Pillera-Cappello;

– nè F., nè S. (coimputato nel presente processo) nè T., avevano a proprio carico sentenze di condanna per partecipazione a sodalizi criminosi.

L’esecuzione dell’omicidio:

– il racconto del T. è infarcito di inverosimili circostanze (puntigliosamente indicate dalla difesa a pag. 41, 42 e 43) e coinvolge fino a 14 persone, con la chicca delle armi abbandonate in aperta campagna alla merce di chiunque e contro ogni metodica mafiosa volta sempre a ben occultare le armi usate in azioni delittuose;

– la sentenza impugnata non ne affronta nessuna (di tali inverosimili circostanze) limitandosi a sminuirne apoditticamente la rilevanza;

– il T., in definitiva, non può essere considerato attendibile nelle sue dichiarazioni collaborative.

G.N.:

– il G. non faceva parte del clan Sparacio, come erroneamente ritenuto da giudice di prime cure, bensì del gruppo Marchese, del quale era uno dei killer più spietati come provato dalle numerose condanna subite;

– la tesi sviluppata nella sentenza impugnata secondo cui il G. avrebbe riferito un sapere condiviso nel contesto i associativo del quale faceva parte, circostanza che escluderebbe per le sue dichiarazioni (da ritenersi per questo non de relato) il vaglio di cui all’art. 195 c.p.p., non regge sul piano logico;

– tale preteso sapere comune contraddice la circostanza che il M., dopo anni, riferisce al G. i fatti e le circostanze di causa e per di più in termini errati, indicando se stesso come guidatore dell’autovettura ed indicando un movente (affari di droga) da nessuno mai menzionato nè prima nè dopo;

– assume la sentenza impugnata che la genesi e l’attendibilità del G. non sono per nulla sospette;

– non hanno considerato i giudicanti che il G., al pari del T., ha seguito tutto il processo "Peloritana 2", apprendendo in tal modo ogni indicazione data da Fe., T., To., L. e Sp. circa l’omicidio St.;

– G. aveva fama di doppiogiochista, come confermato dalle cose dette dal medesimo a B.D., del clan Galli, incaricato della reazione all’omicidio St., e con il quale accusa dell’omicidio stesso gli uomini di Sp.;

– palese, pertanto, la non affidabilità del collaborante;

– di qui, conclusivamente, l’inammissibilità del metodo logico, utilizzato dalla Corte di merito, di individuare singole corrispondenze casualmente ricercate frazionando la chiamata in correità del T. e confrontando i frammenti così isolati ad altri frammenti tratti dal frazionamento della chiamata in reità de relato del G., di poi chiamando a conforto altre parti di dichiarazioni rese da altri collaboranti, come il Fe. ad esempio, coincidenti con la chiamata in correità ma avvinte logicamente al resto del narrato da cui sono state tratte.

C. Ulteriore profilo trattato nell’ambito del primo motivo di impugnazione riguarda il difetto di motivazione in ordine alla idoneità probatoria a sostegno della presunta appartenenza del F. all’omonimo clan catanese, in particolare deducendo che: sul giudicato Peloritana 2 – la partecipazione del F. ad un clan mafioso, pur affermata ripetutamente in sentenza e necessaria per sorreggere la ricostruzione dei fatti ed in particolare il ruolo in essa assunto dal M., non ha sostegno probatorio;

– secondo i giudici di merito tale prova si desumerebbe, a mente dell’art. 238 bis c.p.p., dalle sentenze irrevocabili acquisite:

– ma in dette sentenze non v’è nulla di processualmente apprezzabile per pervenire ad una impostazione accusatoria seria;

– il F. ha precedenti lontani e comunque non di natura criminal- associativa ed è stato di recente assolto dal reato di cui all’art. 416 bis c.p. dal Tribunale di Catania;

– non v’è indicazione probatoria della sua partecipazione associativa e malavitosa ed addirittura del suo ruolo apicale in essa;

– certo non può sopperire una informativa questorile come quella in atti del 15.7.1992, di contenuto palesemente errato, al pari di quella del 19.4.2006;

– anche per il S. sussiste la stessa lacuna probatoria;

– saremmo pertanto in costanza di una pesantissima condanna per omicidio di mafia in assenza di una prova apprezzabile della mafiosità del presunto colpevole.

Sulla partecipazione del F. ad una associazione di tipo mafioso unitamente al T. ed al S.;

– la sentenza dimostra la sua debolezza logica là dove ritiene dimostrato che T. uccise su mandato di F., del cui clan, collegato a sua volta al clan Pillera-Cappello, avrebbe fatto parte;

– la prova di tale partecipazione starebbe nelle dichiarazioni di P.S., dirigente di polizia anticrimine, teste nel processo "Peloritana 2";

– tali dichiarazioni si riferivano a relazioni antecedenti alle sentenze assolutorie del T. per altri fatti di natura associativa e quindi inconferenti in relazione ai fatti di causa;

– il T. non conosceva il F., che sarebbe il capo clan al quale egli apparterrebbe;

– palese l’incongruenza logica del dato comunque posto a fondamento di una condanna all’ergastolo.

D. Ulteriore profilo trattato dai difensori ricorrenti in relazione al denunciato difetto di motivazione di cui al primo motivo riguarda i seguenti punti:

la significatività del mancato coinvolgimento del F. nelle fasi ritorsive seguite all’omicidio St.; l’assunta frequentazione tra M. e F. ed i loro rapporti di ospitalità; la ritenuta concorrenza di una doppia causale nell’omicidio per cui è causa.

– Quanto al primo punto di tutta evidenza la forza logica della considerazione che il F. irrompe nei fatti messinesi per poi scomparire senza conseguenze;

– sui rapporti tra M. e F. la sentenza ricorda l’interrogatorio reso da Fe.Se. il 4.4.2006, in cui si afferma che il F. avrebbe dato al M. la pistola 357 magnum utilizzata per uccidere St. e che alcune armi fornite dal F. sarebbero state utilizzate per l’omicidio C.;

– le dichiarazioni del Fe. sono prive di riscontro e smentite dal fatto che all’epoca dell’omicidio C. il F. era detenuto, oltre che dalle dichiarazioni del collaboratore L. e di Sp. rese nello stesso processo;

– le frequentazioni romane tra M. e F. sono apoditticamente affermate, risultando esse del tutto prive di conferme probatorie e venendo, viceversa, escluse da precise acquisizioni processuali che provano che i due vivevano ognuno per proprio conto;

– non è provato il presunto maltrattamento dello St. a danno del nipote del M., maltrattamento che avrebbe fatto scattare il risentimento del M. stesso fino alla decisione omicidiaria;

– eppoi era questo un fatto tanto grave da giustificare la reazione accreditata in sentenza? – anche la Corte di assise di Messina mostra di non credere a tale movente, mentre le vicende processuali ne evidenziano un altro ben più robusto, quello assunto nelle altre sentenze richiamate nel processo, tutte concordi nel richiamare lo scontro mafioso per la contrastata spartizione dei proventi del gioco di azzardo e del riparto di essi avvenuto, in una certa circostanza e ad opera della vittima, con assegni non esigibili;

– se questo è il reale movente ben non comprende come in quella vicenda sì inserisca un personaggio estraneo ad essa, oltre che indifferente a quegli interessi come il F., considerazione puntualmente sottolineata dal giudice della fase cautelare.

2.1.2 Con il secondo motivo di ricorso denunciano i difensori ricorrenti l’illogicità della motivazione che ha riconosciuto a carico del F. l’aggravante di cui alla L. n. 293 del 1991, art. 7, sul rilievo che se il movente che spinse il F. fu quello di aiutare il M. a lavare l’onta per l’affronto subito dal nipote ad opera dello St., non vi sarebbe spazio per l’aggravante in parola, dappoichè assente il requisito dell’agevolazione mafiosa, nè sarebbe individuabile l’utilizzo del metodo mafioso nell’aiuto prestato al M., se fondati i rilievi difensivi della non appartenenza del F. ad un gruppo mafioso al pari del S. e del T..

2.1.3 Col terzo motivo di ricorso denuncia ancora la difesa ricorrente il difetto di motivazione in relaziona alla mancata concessione al F. delle circostanza attenuanti generiche, in particolare deducendo che:

– non avrebbe la Corte di merito inteso approfondire ed accertare le ragioni della sottoposizione dell’imputato, all’epoca dei fatti, alla misura di sicurezza della libertà vigilata, sintomo questo della tesi difensiva della ridotta capacità intellettiva del F. al tempo dell’omicidio per cui è causa e di un suo possibile precedente ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario;

– in assenza di siffatto accertamento, possibile ma non perseguito, la Corte ha confermato il suo giudizio di pericolosità sociale del prevenuto, fondandolo altresì proprio sulla misura di sicurezza, con ciò omettendo di considerare la modestia dei precedenti a suo carico, il primo risalente nel tempo, l’altro di natura contravvenzionale ed attualmente riferito a figura di reato depenalizzata;

– di qui l’insufficienza motivazionale sul punto.

2.2 Anche nell’interesse di S.P. risulta proposto ricorso per cassazione dal difensore di fiducia, che sviluppa due motivi di impugnazione.

2.2.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente illogicità della motivazione e violazione di legge: a) con riferimento alle dichiarazioni de relato del collaboratore G.N., in particolare deducendo che:

– la motivazione a sostegno della colpevolezza del S. si fonda sulle dichiarazione autoaccusatorie del collaboratore di giustizia T.M. e sul riscontro ad esse di quelle fornite dall’altro collaboratore G., le cui dichiarazioni però si riferiscono a fatti e circostanze appresi dal M. nel corso della comune detenzione verificatasi tra il 1995 ed il 1997;

– di tali dichiarazioni de relato la Corte ha fatto un utilizzo non corretto, giacchè il G., come riconosciuto dagli stessi giudicanti, è persona imputata di reato collegato a quello per il quale si procede, di guisa che avrebbe dovuto trovare applicazione, nella fattispecie, la particolare disciplina di cui all’art. 195 c.p.p.;

– la Corte ha superato l’ostacolo processuale facendo ricorso alla tesi che non di dichiarazione de relato si tratterebbe nel caso di specie, ma di dichiarazioni tratte dal patrimonio di comune conoscenza del sodale rispetto al sodalizio di appartenenza;

– tale argomento non può essere condiviso, tenuto conto del movente disvelato dal G. (contrasti tra M. e la vittima per questioni di droga), della circostanza che mai il G. era stato messo al corrente dei fatti di causa da elementi di spicco dei clan peloritani, che il M. lo informò dei fatti di causa a tre anni di distanza;

– dette circostanze smentiscono la tesi dei giudicanti e conferma che quelle del G. sono tipiche dichiarazioni de relato;

– neppure ha motivato la Corte di merito in ordine alla genesi della collaborazione del G. e circa la sua attendibilità, tenuto conto dell’inizio della sua collaborazione e del tempo che egli ha avuto di apprendere notizie ed accadimenti attraverso il processo "Peloritana 2";

– il G. ha appreso il nome del presunto coautore dell’omicidio St. durante la comune detenzione non già dal M., bensì dallo stesso T.;

– non v’è prova che il M. abbia parlato con il G. dell’imputato S.;

– da tutto ciò consegue la violazione dell’art. 192 c.p.p. con riferimento alla validità del riscontro alle dichiarazioni accusatorie del T.;

– quanto poi alla chiamata in correità del collaboratore T. ed alla valutazione frazionata delle stesse, essa non appare rispettosa dei principi indicati dal giudice di legittimità;

– i giudicanti sì appiattiscono sulle acquisizioni relative al processo "Peloritana 2" alle quali ricorrono per colmare i vuoti e le contraddizioni del racconto del T., del quale enfatizzano la partecipazione diretta all’esecuzione dell’omicidio;

– apoditticamente come irrilevanti vengono invece liquidate dai giudicanti le numerose contraddizioni ed illogicità messe in evidenza dalla difesa (e riportate nel motivo) nonostante la comprovata importanza delle relative circostanze ai fini della credibilità del racconto complessivo;

– Sp. riferisce di aver appreso dal M., il giorno successivo al delitto, che unico fu l’esecutore materiale dell’omicidio e che il M. avrebbe atteso il killer a bordo di una Fiat Uno, mentre T. riferisce di due killer e, soprattutto, di un’autovettura diversa, quella del M., una Lancia integrale, che da Roma, ove si trovava insieme al suo possessore, si trasferisce, non si sa come atteso che il M. raggiunse (OMISSIS) con l’aereo, sul luogo del delitto;

– tale circostanza rimane inspiegabile, nè ad essa da la dovuta importanza la Corte di merito;

– la Corte non ha applicato i principi di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3. 2.2.2. Con il secondo motivo di ricorso lamenta la difesa ricorrente violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla contestata aggravante di aver agito per motivi abbietti e futili e questo sul rilievo che il movente dell’omicidio in parola non va individuato nella causale indicata dal T., la quale, anche a darla per ammessa, non può soverchiare l’importanza della causale vera dell’omicidio in parola, data da una lotta di mafia per la spartizione di proventi illeciti rinvenienti dal controllo del gioco d’azzardo e delle bische clandestine, movente gravemente illecito ma non riferibile alla nozione giuridica di motivo futile.

3. Giova prendere le mosse dalla lezione interpretativa di questa Corte in materia di chiamata in correità i cui principi si appalesano decisivi ai fini della presente decisione.

Come lodevolmente chiarito da Cass, sez. 5, 28.6.2006 n 31442, alla cui esemplare motivazione il Collegio ritiene di aderire, la metodologia più volte indicata da questa Corte (cfr. sez. 6A, del 20/04/2005, Aglieri, e ivi citate Cass. S.U. n. 1653 del 22/02/1993, Marino, sez. 2A n. 15756 del 3/04/2003, Papalia e n. 2350 del 26/01/2005, Contrada) al fine della necessaria rigorosa verifica dell’attendibilità delle chiamate in correità, il giudice non può esimersi dall’affrontare innanzitutto "il problema della credibilità del dichiarante, in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche, al suo passato e ai suoi rapporti con l’accusato, alla genesi e alle ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all’accusa dei coautori e complici". Deve poi, in secondo luogo, verificare "l’intrinseca consistenza e le caratteristiche, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della spontaneità ed autonomia, precisione, completezza della narrazione dei fatti, coerenza e costanza" (sent. Aglieri, citata).

Deve infine, ai fini della necessaria conferma di attendibilità, autonomamente esaminare i riscontri esterni cogliendone le possibili implicazioni e diversi significati, ma senza tentare di adattarne ad ogni costo la lettura alle dichiarazioni del collaborante. E neppure quando le dichiarazioni provengano da plurimi soggetti si può procedere ad una valutazione unitaria delle chiamate in correità tra di loro o con altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità ( l’art. 192 c.p.p. come prescrive al comma 3), se prima non sì escludono "i dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa" (sent. Aglieri, citata)".

In questo caso, di plurime dichiarazioni accusatorie, occorre inoltre, al fine di verificare l’autonomia e la spontaneità di ciascuno e di escludere ogni dubbio sulla circolarità della prova, verificare non soltanto se la convergenza di più dichiarazioni non sia l’esito di collusione o concerto calunnioso, ma anche se tale consonanza non sia comunque attribuibile a "condizionamenti o reciproche influenze, pur senza alcuna preconcetta malafede", essendo necessaria l’obiettiva certezza che ciascuno dei coimputati abbia detto la verità "in modo da allontanare ogni ragionevole dubbio di reciproche influenze e di progressivo allineamento dei dettagli originariamente divergenti di ciascuna di esse" (cfr. sent. Aglieri e ivi citate sez. 1, n. 13279/90, Barbato; sez. 5A 9001/2000, Madonia;

sez. 5A n. 6422/2004, Goddì).

I riscontri necessari ex art. 192 c.p.p., comma 3, per superare il "deficit" probatorio intrinseco alla chiamata in correità possono quindi consistere in elementi di qualsivoglia natura, e dunque anche in altre dichiarazioni aventi il medesimo rango probatorio, ma essi debbono, comunque, fornire argomenti, fattuali o logici, "esterni" alla chiamata, allo scopo di evitare che la verifica sia per l’appunto "circolare", e cioè "tautologica ed autoreferente", in guisa da utilizzare come sostegno dell’ipotesi probatoria che si trae dalla chiamata, la chiamata stessa, riferita de relato, e cioè lo stesso dato da riscontrare (sez. 4A, sent. 6343 del 31/03/1998). Ed è necessario che detti riscontri esterni siano individualizzanti, ossia riguardino direttamente e sicuramente l’imputato e lo specifico fatto storico a lui contestato.

Infine, in presenza di più dichiarazioni non coincidenti su particolari di dettaglio tuttavia significativi o su elementi essenziali della ricostruzione fattuale, "non è consentito utilizzare la parte coincidente delle due dichiarazioni… senza fornire una logica spiegazione delle ragioni delle versioni in contrasto e senza esplicitare i motivi che convincono il giudice dell’attendibilità dei due dichiaranti e delle dichiarazioni rese nella parte che risulta coincidente". Giacchè, perche possa riconoscersi validità al cosiddetto principio della frazionabilità delle dichiarazioni "è necessario, in primo luogo, che non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti, intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate (cfr. Cass. sez. 1A, n. 468/2001, Orofino) e, in secondo luogo, che la falsità o l’inattendibilità di una parte della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante". Quando ragionevolmente si prospetta dalla parti, e ancor più quando oggettivamente si constata, un’ipotesi siffatta, l’obbligo motivazionale del giudice ne risulta rafforzato, non potendo egli omettere di affrontare la questione e spiegare le ragioni per cui l’inattendibilità parziale delle dichiarazioni, processualmente smentite, non incide sull’attendibilità del dichiarante, (cfr. sent.

Aglieri e ivi citata Cass. sez. 6A, n. 22/1996, Gentile). Deve aggiungersi che, se è vero che – come questa Corte ha più volte affermato – per la valutazione delle chiamate in correità l’attendibilità della dichiarazione accusatoria, anche se esclusa per una parte del racconto, non coinvolge necessariamente l’attendibilità del dichiarante con riferimento a quelle parti del racconto che reggono alla verifica del riscontro oggettivo esterno;

tuttavia, affinchè possa evocarsi siffatto canone della "frazionabilità" delle dichiarazioni, è necessario, in primo luogo, che non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti, intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate (cfr. Cass. sez. 1A, n. 468/2001, Orofino) e, in secondo luogo, che la falsità o l’inattendibilità di una parte della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante.

E quando ragionevolmente si prospetta dalla parti, e ancor più quando oggettivamente si constata, un’ipotesi siffatta, l’obbligo motivazionale del giudice ne risulta, ancora una volta, rafforzato, non potendo egli omettere di affrontare la questione e spiegare le ragioni per cui l’inattendibilità parziale delle dichiarazioni, processualmente smentite, non incide sull’attendibilità del dichiarante.

4. Venendo dopo tale doverosa premessa al caso concreto, giudica la Corte infondato il ricorso proposto nell’interesse di F. C..

La Corte territoriale, giova rimarcarlo, ha posto a fondamento del giudizio di colpevolezza, le dichiarazioni accusatorie ed autoaccusatorie di T.M. e di G.N., che si incrociano tra loro, di poi riscontrando le medesime con le dichiarazioni rese da Fe.Se., Tu.Gi., Sp.Lu. nei giudizi conclusisi con la condanna di questi ultimi e riguardanti numerosi fatti di criminalità mafiosa intervenuti nell’ambito di guerre criminali tra gruppi mafiosi messinesi.

La Corte ha avuto cura di correttamente valutare, innanzitutto, la credibilità del T., sottolineando che la motivazione utilitaristica della collaborazione su fatti vissuti in prima persona e raccontati con dovizia di particolari, ne rafforza la credibilità, giacchè in costanza di una sentenza di condanna definitiva all’ergastolo, soltanto la lealtà collaborativa può consentirgli la fruizione dei vantaggi connessi dalla legge alla collaborazione medesima.

La Corte ha inoltre valutato l’autonomia e la spontaneità della collaborazione in parola, confermata dalla motivazione di cui appena detto, dalla circostanza che le dichiarazioni accusatorie hanno consentito l’acquisizione del fatto, allora incerto, che fu il T. ad sparare i colpi mortali e dalla già riferita ricchezza della ricostruzione accusatoria, di poi diffusamente occupandosi dei riscontri ad essa offerti dal processo.

Tali sono stati correttamente valutate le risultanze dei processi di Reggio Calabria e di Messina, innanzitutto, e le dichiarazioni rese in essi da Tu.An., Fe.Se. e Sp. L., concordi nell’indicare il F. come inserito nella malavita organizzata catanese e come alleato del M., al quale, soprattutto il Fe., imputa il famoso doppio movente del delitto (quello personale e quello associativo):

Le dichiarazioni collaborative del G., destinatario delle confidenze del M., uno dei responsabili, quale mandante, dell’omicidio per cui è causa, del quale pure la Corte ha cura di sottolineare, innanzitutto, la credibilità, l’importanza della motivazione religiosa della sua decisione collaborativa, l’assenza di intenti vendicativi e con esse l’autonomia e la spontaneità del suo dire, peraltro appreso, come detto, da un sodale malavitoso nell’ambito del comune gruppo Marchese.

Per la testimonianza indiretta del G., giova osservare, attese le censure difensive prospettate sul punto, che la disciplina dettata dall’art. 195 c.p.p. non può trovare applicazione quando la fonte di riferimento sia costituita, come nella fattispecie, da soggetto che rivesta la qualità di imputato (ex plurimis: Cass., Sez. 5, 25.3.2004, n. 26628, rv. 229863).

La motivazione ha poi puntigliosamente richiamato, ancora quali riscontri esterni delle accuse del T., il contemporaneo soggiorno romano del M. e del F., il riconoscimento fotografico di quest’ultimo da parte del T. e del G. e la sovrapponibilità sostanziale tra i racconti del T. e del G., le dichiarazioni giudiziali del Fe., al quale il M. si presenta per l’esecuzione dell’omicidio con i due sicari catanesi.

Quanto invece alle ineludibili differenze tra questi ultimi, doverosamente enfatizzate dalle difese ricorrenti, osserva la Corte che logica, coerente e non contraddittorìa si appalesa la motivazione articolata dal giudice di secondo grado allorchè, di esse trattando, ne ha sottolineato il significato non decisivo rispetto al quadro complessivo ed alla essenzialità delle concordanze, nonchè alla conoscenza comunque parziale dei complessi fatti di causa riconducibile e riferibile ai vari soggetti i cui apporti sono stati utilizzati dai giudicanti di merito.

Resiste altresì alle censure difensive la motivazione di seconde cure in ordine al diverso movente indicato dal G. a giustificazione del delitto St..

La corte territoriale ha infatti, per un verso, sottolineato la minore importanza di questa circostanza rispetto ai fatti di causa, indicando più di una convincente interpretazione della inesattezza, per questo inidonea ad inficiare l’affidabilità dell’intera dichiarazione, e, per altro verso, l’acquisita certezza processuale, robustosamente sostenuta da plurimi apporti istruttori, circa la duplice causale dell’omicidio, l’una collegata alle dinamiche associative e coinvolgente il M. quale associato del clan Marchese e l’altra più personale, connessa all’orgoglio mafioso del M., offeso dal comportamento della vittima nei confronti di propri congiunti. Del pari convincente sul piano logico è la lettura data dalla sentenza impugnata della accreditata incongruenza di un delitto maturato nell’ambito strettissimo della malavita messinese, ma ispirato da un presunto esponente di gruppi criminali reggini che a quelle diatribe non avevano interesse alcuno. Sul punto ha infatti osservato la Corte territoriale (con logiche valutazioni di merito incensurabili in questa sede) che il T. si è limitato a raccontare ciò che avvenne in sua presenza a (OMISSIS) alla presenza del M.’ e del F., la reazione di quest’ultimo alla telefonata ricevuta dal M. che lo notiziava delle minacce rivolte dalla vittima ad un suo parente, in un quadro del tutto verosimile di intese comuni tra antichi alleati malavitosi, nel cui ambito il F. rafforzava l’intento criminale del M. offrendogli il suo aiuto. Di scarso rilievo appaiono infine le causidiche ricerche di incongruenze piccole e grandi, sia perchè non se ne può condividere la valutazione di decisività ai fini dell’inattendibilità dei collaboranti, sia perchè il criterio della frazionabilità delle dichiarazioni accusatorie appare utilizzato correttamente e, soprattutto, sostenuto con adeguata motivazione onde giustificarne (delle incongruenze) la presenza, sia perchè il racconto del Te., a notevole tempo di distanza dagli avvenimenti, si inserisce pienamente nel contesto già tracciato dalle precedenti sentenze (di Messina e Reggio Calabria) che già aveva giudicato sull’assassinio per cui è causa, rispettandone le linee essenziali e decisive per l’ammissibilità e l’accettabilità del confronto e del riscontro.

5. Fondata, nei limiti che si passa ad indicare, è la doglianza proposta da S..

Anche per S. la fonte accusatoria è data dalle dichiarazione del T., che accusa l’imputato di essergli stato complice nella missione omicida guidando l’autovettura che lo portò sul luogo del delitto e con la quale si dileguò subito dopo fino al trasbordo su un’autovettura "pulita" guidata dal M..

Ebbene, ferme restando le valutazioni di affidabilità, credibilità, delle dichiarazioni accusatorie ed autoaccusatorie del T., e l’insieme dei riscontri esterni in parte già innanzi richiamati e compiutamente indicati nella motivazione impugnata, difetta nel caso di specie il riscontro individualizzante che connetta l’imputato al fatto storico contestatogli.

Al riguardo i giudici di merito hanno indicato le dichiarazioni del G., il quale indica il S. come il "catanese" che col T. eseguì il mandato omicidiario. In particolare il G. racconta che il M., durante un incontro in carcere con i suoi difensori, incontrò un catanese che non riconobbe e che successivamente il T. gli riferì essere " P." la persona cioè con la quale aveva consumato l’omicidio St.. Di qui l’evidenza che il riscontro proviene dalla persona le cui dichiarazioni devono essere confermate, il T., in una sorta di riscontro circolare che priva il riscontro medesimo del suo valore probatorio (Cass., 31442/2006 cit.).

Di qui, altresì, la considerazione che il quadro accusatorio a carico del S., pur apprezzabile in relazione alle accuse affidabili del T. ed ad una serie di conferme indirette delle medesime, manca di un elemento decisivo ed imprescindibile al fine di corroborarne la valenza probatoria a carico del ricorrente, il riscontro individualizzante, tale non essendo per le ragioni dette, quello indicato sin qui dai giudici di merito. La condanna del S., le cui doglianze restano assorbite dal motivo dell’annullamento, va pertanto cassata con rinvio, affinchè il giudice del merito, in piena libertà rivalutando le emergenze processuali, sottoponga a nuova delibazione la posizione processuale dell’imputato.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di S. P. e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria. Rigetta il ricorso di F.C. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 08-06-2011) 29-09-2011, n. 35312 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 11 novembre 2010, il Tribunale di Varese ha respinto la richiesta di riesame di un sequestro preventivo che grava su di una area adibita a parcheggio sita nell’ambito del Consorzio del Parco della Valle del Ticino e classificata come zona G1 (pianura asciutta a preminente vocazione forestale).

Per giungere alla ricordata conclusione, i Giudici hanno evidenziato la configurabilità del reato previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 (contestate erano anche le contravvenzioni ex art. 734 c.p. e R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 17 ter comma 3.5) per la distruzione ed alterazione della zona boschiva protetta;

indi il Tribunale ha motivato sulle necessità cautelari.

Per l’annullamento della ordinanza, ha proposto ricorso per Cassazione l’indagato P.M. in proprio e quale legale rappresentante della srl Malpensa Road Service che ha concesso in affitto ad altra società il sito in contestazione, sulla quale insiste un autolavaggio autorizzato. Nei motivi di impugnazione deduce:

– che l’area adibita a parcheggio non è nella sua disponibilità e non gli può essere addebitato il comportamento del conduttore dell’autolavaggio in carenza di prova del suo concorso nel reato;

– che non ha mai consentito di esercitare la abusiva attività di parcheggio;

– che il Tribunale non ha tenuto conto di avere annullato precedenti sequestri, emessi sulla stessa area e per la medesima causa, e che il nuovo vincolo reale è stato disposto senza che sia intervenuta alcuna modifica di fatto;

– che i Giudici non hanno considerato che alcuni reati sono oblazionabili e che manca la situazione di pericolo sullo equilibrio ambientale dal momento che tutti i siti attigui allo Aeroporto di (OMISSIS) sono adibiti a parcheggio.

Le deduzioni dell’atto di ricorso non sono meritevoli di accoglimento.

Con i primi due motivi, l’indagato non contesta la commissione del reato, ma segnala che la condotta antidoverosa non è addebitabile alla sua persona, ma al soggetto che ha preso in affitto l’area; la censura è inconferente.

Il procedimento cautelare trova la sua ragione nella necessità di evitare che le conseguenze del reato siano protratte nel tempo, incrementate in intensità oppure di ostacolare la commissione di ulteriori illeciti penali; per la applicazione della misura occorre che siano sussistenti elementi che rendano ipotizzabile il reato per il quale si procede, ma non è richiesto, tra i presupposti legittimanti il sequestro, che la gravità degli indizi di colpevolezza siano a carico di un soggetto individuato (tanto è vero che il vincolo reale può essere disposto in procedimento contro ignoti).

Di conseguenza, in questa fase cautelare, è irrilevante che il reato sia attribuibile all’attuale ricorrente o alla persona che ha la materiale disponibilità dell’area essendo questa problematica di esclusiva competenza del Giudice del procedimento principale.

Il motivo sulla reiterazione dei provvedimenti cautelari è privo della necessaria concretezza dal momento che l’indagato – in violazione del principio di necessaria autosufficienza del ricorso valevole anche nel procedo penale – non ha fornito a questa Corte gli elementi per valutare la fondatezza della censura sulla formazione del giudicato cautelare. In merito ai residui motivi, è appena il caso di rilevare che per le contravvenzioni oblazionabili non è stata disposta la misura; la circostanza che nei pressi dello aeroporto siano stati disposti altri parcheggi, che degradano il sito, non ha influenza alcuna sulla configurabilità della contravvenzione per la quale si procede.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.