Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-09-2011) 13-10-2011, n. 36991 Costruzioni abusive Reati edilizi

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Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Palermo confermò la sentenza 22 maggio 2008 del giudice del tribunale di Palermo, che aveva dichiarato S.A. e S.S. colpevoli dei reati di cui a D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), artt. 71 e 72, e art. 349 c.p. – in relazione alla edificazione, senza permesso di costruire, di un ampio manufatto in cemento armato a due elevazioni fuori terra con piani di copertura ed apprezzabile superficie – e li aveva condannati ciascuno alla pena di mesi otto di reclusione ed Euro 300,00 di multa e con i doppi benefici.

Gli imputati propongono ricorso per cassazione deducendo:

– che l’immobile in questione era preesistente all’atto di acquisto del 22.2.2002 e già accatastato e che essi si erano limitati ad effettuare opere destinate al cambio di destinazione d’uso del piano terra e del primo piano con modeste modifiche ampliative;

– che inoltre avevano regolarizzato le opere mediante comunicazione al sindaco ai sensi della L.R. n. 37 del 1985, art. 9 e presentazione di istanza di sanatoria;

– che la sentenza impugnata ha omesso di motivare sui detti motivi di appello:

– che il reato era prescritto alla data della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

La corte d’appello, infatti, ha esattamente ritenuto che vi fosse bisogno del permesso di costruire, trattandosi di una nuova opera consistente nella realizzazione di un ampio manufatto in cemento armato con due elevazioni fuori terra con piani di copertura ed apprezzabili superfici.

In ogni caso, i reati edilizi sarebbero chiaramente egualmente configurabili quand’anche fosse vero l’assunto dei ricorrenti, che essi si sarebbero limitati ad eseguire opere destinate al mutamento di destinazione d’uso di un preesistente manufatto con modeste modifiche ampliative. E difatti, secondo costante giurisprudenza, il mutamento di destinazione d’uso di un immobile effettuato mediante la realizzazione di opere, anche interne, necessita del permesso di costruire. Nella specie, gli stessi ricorrenti ammettono che la modifica di destinazione d’uso sarebbe stata realizzate mediante opere ed addirittura mediante opere ampliative.

E’ manifestamente infondato il richiamo alla L.R. n. 37 del 1985, art. 9, perchè, come esattamente rilevato dalla corte d’appello, stante le caratteristiche, la struttura e le dimensioni delle opere realizzate, la fattispecie esula dalla sfera di operatività della disposizione regionale, la cui applicabilità del resto è stata solo affermata ma non motivata dai ricorrenti. In ogni caso, è evidente che l’istanza di sanatoria era irrilevante, se non altro perchè nemmeno si assume che sia stato rilasciato un provvedimento amministrativo di sanatoria (a prescindere dalla sua legittimità).

E’ infine manifestamente infondato anche il motivo sulla avvenuta prescrizione dei reati edilizi già all’epoca della sentenza impugnata, dal momento che la corte d’appello ha esattamente rilevato che al termine ordinario (scadente il 30 aprile 2008) dovevano aggiungersi i vari periodi di sospensione, rispettivamente di anni uno, mesi due e giorni 18, di anni uno, mesi uno e giorni 14 e di anni uno. Il motivo è anche aspecifico perchè omette totalmente di considerare la motivazione su cui si è fondata sul punto la sentenza impugnata.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.

Essendo il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi, la eventuale prescrizione di alcuni reati verificatasi in una data successiva a quella in cui è stata emessa la sentenza impugnata (16.11.2010), è del tutto irrilevante perchè, a causa della inammissibilità del ricorso non si è formato un valido rapporto di impugnazione il che preclude a questa Corte la possibilità di rilevare e dichiarare le eventuali cause di estinzione del reato, ivi compresa la prescrizione, verificatesi in data posteriore alla pronuncia della decisione impugnata (Sez. Un., 22 novembre 2000, De Luca, m. 217.266; giur. costante).

In applicazione dell’art. 616 c.p.p., segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, di ciascuno al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che si ritiene congruo fissare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti singolarmente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-05-2012, n. 6646 Pensione di inabilità

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Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Catania, riuniti gli appelli di M.A. e dell’INPS, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda di pensione di inabilità civile proposta dal M. nei confronti dell’Istituto previdenziale e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ritenendo non provata la sussistenza del requisito reddituale dalla dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà prodotta in primo grado e inammissibile la produzione in appello della certificazione dell’Agenzia delle entrate.

Di questa sentenza chiede la cassazione il M. con ricorso fondato su due motivi. L’TNPS resiste con controricorso. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dall’Istituto controricorrente per inosservanza dell’art. 366 bis c.p.c., in considerazione del mancato rispetto dei canoni previsti da detta norma processuale (così come indicati dalla giurisprudenza di legittimità) nella formulazione dei quesiti di diritto.

2. Si osserva infatti che la sentenza d’appello qui impugnata risulta depositata in data 29 ottobre 2009, vale a dire dopo l’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, il cui art. 47 ha abrogato l’art. 366 bis c.p.c.. Ed è nota la giurisprudenza di questa Corte con la quale si è affermato che la suddetta disposizione normativa (appunto l’art. 47) si applica, per effetto della disciplina transitoria contenuta nel successivo art. 58, comma 5, alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione sia stato pubblicato successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge; conseguendone, per le controversie in questione, l’esonero, per il ricorrente in cassazione, dall’obbligo di formulazione dei motivi secondo le regole imposte dalla disposizione processuale abrogata (vedi Cass. n. 26364/2009, n. 15718/2011).

3. Nel primo motivo, con deduzione di violazione della L. n. 118 del 1971, art. 12, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente sostiene che il certificato dell’Agenzia delle entrate – come attestato dalla cancelleria del Tribunale in calce al fascicolo di parte – era stato da lui prodotto in primo grado in data 17.1.2006 su invito del giudice ad integrare il quadro probatorio nei termini all’uopo assegnati. Aggiunge che nel giudizio di secondo grado era stata prodotta solo una fotocopia dell’originale già depositato e contesta, quindi, alla sentenza impugnata di aver ritenuto prodotta tardivamente la documentazione relativa al requisito reddituale.

4. Nel secondo motivo, con denuncia di vizio di motivazione e/o violazione dell’art. 112 c.p.c., si ribadisce quanto già dedotto nel primo motivo a proposito dell’affermazione relativa al difetto di prova del requisito reddituale e si censura ulteriormente la sentenza impugnata in punto di regolazione delle spese di lite.

5. Il primo motivo è fondato.

6. Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’onere della prova circa il possesso del requisito reddituale, che integra (al pari del requisito sanitario e di quello della incollocazione al lavoro) uno degli elementi della fattispecie costitutiva del diritto alla pensione di inabilità civile (come pure all’assegno mensile di assistenza), grava sulla parte che agisce per ottenerne il riconoscimento (vedi, per tutte, Cass. Sez. un. 5167/2003 e la successiva giurisprudenza conforme della Sezione lavoro, in base ai principi generali sul riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.).

L’inottemperanza a tale onere, tuttavia, comporta la soccombenza della parte – che ne sia gravata – soltanto se il possesso dello stesso requisito reddituale, nonostante la contestazione specifica di controparte, non risulti dalle prove comunque acquisite al processo.

Infatti i prospettati principi generali sul riparto dell’onere probatorio debbono essere, in ogni caso, coordinati con il principio di acquisizione, che trova positivo riscontro in alcune disposizioni del codice di rito (quale, ad esempio, l’art. 245 c.p.c., comma 2), nonchè pregnante fondamento nella costituzionalizzazione (art. 111 Cost.) del principio del giusto processo (sul punto, vedi Cass. n. 28498/2005, n. 15162/2008, n. 12131/2009). Sempre secondo la richiamata giurisprudenza, la prova circa il possesso del requisito reddituale non può essere offerta tramite la produzione di una dichiarazione sostitutiva di certificazione sulla situazione reddituale, in quanto tale dichiarazione è, bensì, idonea a comprovare la detta situazione nei rapporti con la pubblica amministrazione e nei relativi procedimenti amministrativi – in forza dell’esplicita previsione, in tal senso, della disposizione normativa che ne reca l’istituzione e la disciplina (L. 13 aprile 1977, n. 114, art. 24 e, successivamente, D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 403, art. 1, comma 1, lett. b), – ma nessun valore probatorio, neanche indiziario, può esserle riconosciuto nell’ambito del giudizio civile, atteso che la parte non può derivare da proprie dichiarazioni elementi di prova a proprio favore, al fine del soddisfacimento dell’onere posto a suo carico dall’art. 2697 c.c.. La negazione di qualsiasi valore dimostrativo autonomo non esclude, tuttavia, che la stessa dichiarazione sostitutiva di certificazione possa concorrere, con altre risultanze istruttorie, ad integrare il quadro probatorio (vedi Cass. n. 2379/2007). In tale prospettiva, può essere integrata – da dichiarazione sostitutiva appunto – la certificazione amministrativa (dell’Agenzia delle entrate o di altra pubblica amministrazione), che, pur essendo dotata dell’efficacia di prova legale (art. 2700 c.c.), abbia, tuttavia, un contenuto inidoneo, da solo, a comprovare il possesso del requisito reddituale (vedi, in termini, Cass. n. 12131/2009 cit.).

7. Ribaditi quelli che sono i principi il cui rispetto si impone nella verifica del possesso del requisito reddituale da parte di coloro che richiedono una prestazione di assistenza sociale, non può non osservarsi che, nel caso in esame – come risulta dagli atti di causa specificamente richiamati in ricorso (fascicolo di parte doc. n. 11) – l’odierno ricorrente aveva provveduto a depositare la certificazione dell’Agenzia delle entrate nel corso del giudizio di primo grado, in aggiunta alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio relativa ai redditi posseduti negli anni 2002, 2003 e 2004 e allegata al ricorso introduttivo della lite.

8. Censurabile diventa, pertanto, l’affermazione della Corte territoriale, laddove ha ritenuto indimostrato il possesso del requisito reddituale, per essere stata la certificazione in questione inammissibilmente prodotta per la prima volta nel giudizio di appello.

9. Il primo motivo di ricorso va, dunque, accolto, conseguendone la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa al giudice di merito designato in dispositivo, per un nuovo esame del materiale probatorio che tenga conto del documento non valutato dalla Corte territoriale.

10. Resta assorbito, dall’accoglimento del primo motivo, il secondo motivo di ricorso, perchè in parte ripetitivo delle censure già formulate e in parte attinente alla regolazione delle spese di lite, giusta – con riferimento a questo secondo profilo – il principio, evincibile dall’art. 336 c.p.c., comma 1, secondo il quale la caducazione, in sede di legittimità, della pronuncia del giudice di appello si estende alla statuizione relativa alle spese processuali (cosiddetto effetto espansivo), spettando al giudice, cui la causa sia rinviata, rinnovarne totalmente la regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite (Cass. n. 13104/2003, n. 15998/2003, n. 19305/2005, n. 18837/2010).

11. Al giudice di rinvio è demandata anche la regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Catania in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2012

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Cass. civ. Sez. I, Sent., 28-05-2012, n. 8433 Indennità di espropriazione Occupazione d’urgenza

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Svolgimento del processo

1 – Con atto di citazione notificato in data 15 marzo 2007 C. I.R., premesso che con decreto prefettizio emesso il 21 settembre 2005 su un proprio fondo sito in (OMISSIS), era stata imposta una servitù di elettrodotto a favore di Terna S.p.a.; che successivamente era stata depositata l’indennità definitiva, pari complessivamente ad Euro 25.453,67, ritenuta incongrua per difetto, chiedeva che, nel contraddittorio della predetta società, la Corte di appello di Napoli determinasse la giusta indennità di asservimento, anche in relazione al periodo di occupazione e al minor valore della proprietà residua.

1.1 – La Corte adita, con la decisione indicata in epigrafe, rilevato che l’indennità di asservimento dovesse calcolarsi in base ai criteri fissati dal R.D. n. 1775 del 1933, art. 123, tenendo altresì conto, trattandosi di terreno agricolo, del valore agricolo medio stabilito ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 16, richiamato dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4, sulla base di tali parametri (così prescindendo dalle risultanze della ctu, fondata su diversi valori), tenendo altresì conto del deprezzamento della residua superficie, stimato nella misura del 25 per cento, determinava in Euro 38.512,96 l’ammontare complessivo dell’indennità di asservimento.

L’indennità di occupazione veniva poi indicata in Euro 6.418,00, avuto riguardo a un dodicesimo per anno dell’indennità complessiva di asservimento. Veniva infine attribuita all’attore la somma di Euro 13.624,00, per danni a un pescheto, a un pozzo e all’impianto di irrigazione.

Per la cassazione di tale decisione il C.I. propone ricorso, affidato a cinque motivi ed illustrato da memoria, cui Terna S.p.a. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

2 – Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 865 del 1971, art. 16 e della L. n. 359, art. 5 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Viene, in particolare, criticato il ricorso, operato dalla corte territoriale, al criterio fondato sul "valore agricolo medio", dovendo ritenersi, anche in base a una lettura sistematica della L. n. 865 del 1971, art. 15 e alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che debba essere considerato il valore agricolo di mercato.

2.1 – Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 57 bis del T.U. approvato con D.P.R. n. 327 del 2001, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e n. 5, sostenendosi quindi l’applicabilità, in luogo del R.D. n. 1775 del 1933, art. 123, del medesimo D.P.R. n. 327 del 2001, art. 33. 2.2 – Con il terzo motivo si prospetta l’ illegittimità costituzionale delle norme applicate dalla corte partenopea, nonchè la loro contrarietà all’art. 1, Prot. addizionale, della Cedu.

2.3 – Il quarto motivo attiene alla violazione della L. n. 865 del 1971, artt. 15 e 20, per essere stata l’indennità di occupazione commisurata al "valore complessivo dell’asservimento", e non già al valore (virtuale) dell’espropriazione, dal momento che, sulla base del decreto prefettizio, risultava occupato, con relativa sottrazione al proprietario della sua disponibilità, l’intero bene.

2.4 – Con l’ultimo motivo viene infine criticata, per le ragioni già indicate, l’applicazione del criterio fondato sul valore agricolo medio per la determinazione della diminuzione del valore del fondo.

3 – Devesi preliminarmente rilevare che nella presente vicenda processuale assume rilievo la recente pronuncia n. 181 del 2011 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità della L. n. 865 del 1971, art. 16 e confermato dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4, per contrasto con l’art. 42 Cost., comma 3 e art. 117 Cost..

Questa Corte Suprema, così come del resto affermato in relazione alla declaratoria di incostituzionalità della normativa relativa ai suoli aventi natura edificatoria, ritiene che in merito all’individuazione del criterio legale di stima non sia concepibile la formazione di un giudicato autonomo, in quanto il bene della vita alla cui attribuzione tende l’opponente alla stima è l’indennità, liquidata nella misura di legge, non già l’indicato criterio legale.

Deve ritenersi, invero, che la pronuncia di illegittimità costituzionale non si applichi ai soli rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi ve-rificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità (Cass., n. 16450 del 2006; n. 15200 del 2005; n. 22413 del 2004).

Nessuna di queste ipotesi si è verificata nel caso concreto posto che l’espropriato con i motivi di impugnazione in esame ha impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell’indennità, ponendo in discussione proprio il criterio legale utilizzato dalla Corte territoriale, tenuto conto che il relativo capo della sentenza riposa sulla premessa dell’applicabilità della L. n. 865 del 1971, art. 16 e della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4. 3.1 – Una volta venuti meno i criteri riduttivi suddetti a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, la Corte deve ribadire quanto già affermato dopo la menzionata sentenza 348/2007 della Corte costituzionale relativa ai suoli edificatori: che cioè per la stima dell’indennità torna nuovamente applicabile il criterio generale dell’indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39, che è l’unico criterio ancora vigente rinvenibile nell’ordinamento, e per di più non stabilito per singole e specifiche fattispecie espropriative, ma destinato a funzionare in linea generale in ogni ipotesi o tipo di espropriazione salvo che un’apposita norma provvedesse diversamente.

E che quindi nel caso concreto si presenta idoneo a riespandere la sua efficacia per colmare il vuoto prodotto nell’ordinamento dall’espunzione del criterio dichiarato incostituzionale (Cass., n. 4602/1989; 3785/1988; sez. un. 64/1986): anche per la sua corrispondenza con la riparazione integrale in rapporto ragionevole con il valore venale del bene garantita dall’art. 1 del Protocollo allegato alla Convenzione europea, nell’interpretazione offerta dalla Corte EDU. L’applicazione del criterio in questione da parte del giudice di rinvio comporta necessariamente l’estensione anche alla stima dell’indennizzo in questione dei medesimi principi già applicati per quello rivolto a risarcire l’espropriazione illegittima degli stessi fondi non edificatori; i quali impongono di tener conto delle obbiettive ed intrinseche caratteristiche ed attitudini dell’area in relazione alle utilizzazioni autorizzate dagli strumenti di pianificazione del territorio: perciò consentendo pure al proprietario interessato da un’espropriazione rituale, di dimostrare sempre all’interno della categoria suoli/inedificabili, anche attraverso rigorose indagini tecniche e specializzate, che il valore agricolo, da determinarsi in base al relativo mercato, sia mutato e/o aumentato in conseguenza di una diversa destinazione del bene egualmente compatibile con la sua ormai accertata non edificatorietà. E, quindi, che il fondo, suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere i livelli dell’edificatorietà, abbia un’effettiva e documentata valutazione di mercato che rispecchia queste possibilità di utilizzazioni intermedie tra l’agrìcola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.): semprecchè assentite dalla normativa vigente sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative. Deve aggiungersi, con riferimento al caso di specie, che già prima della richiamata pronuncia della Corte costituzionale questa Corte, proprio in materia di indennità di asservimento, ha affermato il principio, che il Collegio condivide, secondo cui la diminuzione di valore che il suolo subisce per l’imposizione della predetta servitù, a norma del R.D. n. 1775 del 1933, art. 123, comma 1, deve tenere conto, laddove si tratti di suolo appartenente ad un’azienda agricola, della riduzione del valore venale del fondo, per l’eventuale riduzione quantitativa e qualitativa della produttività agricola che si dimostri prodotta dal passaggio dell’elettrodotto (Cass., 28 luglio 2010, n. 17680).

4 – L’accoglimento del primo motivo risulta assorbente rispetto al secondo, al terzo e al quinto, tutti intesi alla disapplicazione dei criteri riduttivi ormai non più operanti. Deve comunque ribadirsi, quanto alla terza censura, l’applicabilità, ratione temporis, sulla base del chiaro tenore della norma transitoria richiamata dallo stesso appellante, del R.D. n. 1775 del 1933, art. 123. 5- Il quarto motivo, relativo alla determinazione dell’indennità di occupazione, è fondato.

La corte territoriale, nel determinare l’entità di tale voce, ha ritenuto di calcolare un dodicesimo dell’indennità complessiva di asservimento.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che il provvedimento di occupazione temporanea preordinata all’espropriazione di un immobile privato attribuisce immediatamente alla P.A. il diritto di disporne allo scopo di accelerare la realizzazione dell’opera pubblica per la quale è stato emanato ed incide in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, privandolo (temporaneamente) in tutto o in parte delle facoltà di godimento e di disposizione: e perciò stesso attuando automaticamente la compressione del diritto dominicale nel momento stesso in cui viene pronunciato e diviene, quindi, suscettibile di esecuzione, a prescindere dalla successiva immissione in possessoria quale si colloca nell’ambito di un rapporto già- in atto ed in una situazione in cui si è già realizzato l’effetto giuridico ablatorio, configurando la trasformazione del correlativo diritto del proprietario in diritto all’indennizzo ex art. 42 Costit.: e perciò producendo un’obbligazione indennitaria volta a compensare, per tutta la durata dell’indisponibilità del bene, fino all’esproprio, il detrimento dato dal suo mancato godimento (piuttosto che dal ritardo con cui viene corrisposta l’indennità di espropriazione), ossia una perdita reddituale che, essendo diversa da quella patrimoniale della perdita della proprietà del bene, impone un ristoro separato ed aggiuntivo, non assorbibile nell’indennità di espropriazione; nè allorquando si tratta come nel caso concreto di imposizione di una servitù, nell’indennità di asservimento (Cass. sez. un. 493/1998; 7324/96, 5804/95, 6083/94 ed altre). Detto indennizzo, derivando, dunque, da un atto legittimo dell’amministrazione autonomo ed indipendente dal titolo in base al quale potrà concludersi la vicenda ablativa, deve essere liquidato qualunque sia l’evento giuridico che la caratterizzi (cessione volontaria, espropriazione formale, occupazione acquisitiva, asservimento) in base ad un criterio unico ed unitario che, trattandosi di terreno agricolo, deve essere commisurata all’indennità che sarebbe dovuta per l’espropriazione dell’area effettivamente occupata (Cass., 1 aprile 2003, n. 4919; Cass., 26 marzo 2004, n. 6086)), non necessariamente coincidente con quella successivamente espropriata o, come nella specie, asservita.

6 – In considerazione dello ius superveniens e delle ulteriori censure accolte la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di appello di Napoli che, in diversa composizione, determinerà le indennità di asservimento e di occupazione alla stregua dei principi sopra indicati, provvedendo, altresì, al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 21-09-2011) 06-12-2011, n. 45420 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. Con l’ordinanza in epigrafe indicata la Corte di appello di Catania, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto la domanda proposta da X.S.H. diretta ad ottenere l’applicazione della disciplina del reato continuato con riferimento ai fatti oggetto delle seguenti sentenze irrevocabili: la prima emessa dal Tribunale di Catania, il 16/10/2008, di condanna dello X. alla pena di anni tredici di reclusione per il delitto continuato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti del tipo cocaina e marijuana e di cessione continuata in concorso di marijuana, con compiti di raccordo logistico, fornitura e commercio della medesima sostanza (fatti commessi in Catania e provincia e in altre parti del territorio nazionale fino al settembre 2003); la seconda sentenza emessa dalla Corte di appello di Catania, il 27/03/2009, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, di condanna dello X. alla pena di anni dieci e mesi sei di reclusione per il delitto continuato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti del tipo cocaina e marijuana e di commercio continuato delle medesime sostanze, con compiti di fornitore e procacciatore (fatti commessi in Catania e provincia e in altre parti del territorio nazionale fino al febbraio 2003).

A ragione la Corte territoriale ha addotto che, nonostante l’omogeneità delle condotte, la contiguità temporale tra esse, l’identità del bene giuridico offeso e l’analogia del ruolo esercitato dal condannato, essendo lo X. inserito in una più ampia organizzazione operante a livello internazionale, non poteva ritenersi che quest’ultimo, nel momento in cui aveva aderito alla prima delle due associazioni catanesi, ponendosi come fornitore e procacciatore di marijuana per conto della stessa, avesse nel contempo ideato, seppure a grandi linee, di partecipare anche ad altro diverso sodalizio, operante nel medesimo territorio, quale procacciatore e fornitore sia di marijuana che di cocaina, "dipendendo la dinamicità della formazione dei gruppi associativi e l’adesione agli stessi dalla novità delle situazioni che di volta in volta si creano" (così, testualmente, l’ordinanza in esame, a pag.

4).

2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso a questa Corte lo X., tramite il suo difensore di fiducia, il quale deduce due motivi.

2.1. Con il primo lamenta la violazione di legge in punto di inosservanza o erronea applicazione dell’art. 81 cod. pen., comma 2, in tema di "medesimo disegno criminoso", che sarebbe stato escluso, nell’ordinanza impugnata, per la ritenuta diversità delle due associazioni per delinquere finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti, la supposta non contestuale adesione del condannato ad esse, e la negata preventiva programmazione di ogni singolo reato, elementi, tutti, estranei alla corretta applicazione della disciplina del reato continuato per cui assume rilievo determinante la unitarietà del fine sotteso alla ideazione e deliberazione iniziale, non necessariamente analitica, di una pluralità di condotte criminose.

2.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di motivazione, non avendo la Corte territoriale dato ragione della mancata rilevanza attribuita ai plurimi e convergenti elementi indicativi dell’unitario disegno criminoso collegante i fatti giudicati, che sarebbe stato escluso con una motivazione del tutto formale e astratta.

3. Il difensore del ricorrente, avvocato Nino Marazzita, ha tempestivamente depositato un’articolata memoria difensiva in cui confuta le conclusioni del Pubblico ministero presso questa Corte, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso, ed insiste nella richiesta di accoglimento del gravame.

Risultano pervenute anche note per l’odierna udienza, a firma dell’altro difensore del ricorrente, avvocato Giovanni Aricò, ad ulteriore sostegno dei motivi di ricorso.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è fondato.

Ad avviso del collegio, più che la violazione di legge denunciata, sussiste il dedotto vizio di motivazione dell’impugnata ordinanza, considerato che la Corte di merito, dopo avere correttamente richiamato la giurisprudenza in tema di applicazione della disciplina del reato continuato ed avere puntualmente elencato gli elementi indicativi dell’unicità del disegno criminoso, tutti ricorrenti nel caso in esame, ovvero l’omogeneità delle condotte illecite, la contiguità spaziotemporale di esse, l’identità del bene giuridico offeso, l’analogia del ruolo dello X. nelle due associazioni – dipendente dal suo inserimento in una più ampia organizzazione operante a livello internazionale- col compito di rifornire di sostanze stupefacenti le associazioni dedite, nel territorio catanese, al traffico della droga, contraddittoriamente esclude l’identità del disegno criminoso sulla base della mera diversità della compagine dei due sodalizi e della parziale non coincidenza delle sostanze stupefacenti trafficate dall’una e dall’altra associazione (solo marijuana in un caso, e marijuana e cocaina nell’altro), con un richiamo del tutto avulso dalle risultanze di causa, per come indicate nella medesima ordinanza, alla "dinamicità della formazione dei gruppi associativi" e all’adesione ad essi dipendente dalla "novità delle situazioni che di volta in volta si creano".

In particolare, la Corte di merito non precisa gli elementi concreti che la inducono a ritenere che lo X., nel momento dell’adesione alla prima delle due associazioni locali come fornitore di marijuana alla stessa, non avesse nel contempo ideato e voluto la partecipazione anche ad altro sodalizio, operante nella medesima sede, quale fornitore sia di marijuana che di cocaina, così operando una scissione temporale nell’appartenenza dell’istante alle due associazioni che non trova riscontro negli elementi indicati dalla stessa ordinanza (risulta, invero, contestata solo la data di cessazione della consumazione dei reati per cui è condanna, e non anche quella di inizio di essa) e disconoscendo, altresì, la coerenza delle plurime condotte associative "locali" con il fine della più vasta organizzazione internazionale, dedita al traffico di sostanze stupefacenti, di primigenia appartenenza dello X..

5. Si impone, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Catania che provvederà uniformandosi a quanto rilevato nella presente sentenza.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Catania.

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