Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce sentenze : 158/2009

composto dai Signori:

Aldo RAVALLI Presidente, relatore

Luigi VIOLA Consigliere

Massimo SANTINI Referendario

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso n. 1238/2007 proposto da:

SOCIETA’ HS MINERVA SRL

rappresentata e difesa da:

RUSSO GABRIELE

con domicilio eletto in LECCE

VIA 95 RGT. FANTERIA 9

presso

RUSSO GABRIELE
contro

COMUNE DI MARTANO, non costituitosi

e nei confronti di

SOCIETA’ GALLO COSTRUZIONI, non costituitasi;

e nei confronti di

SOCIETA’ EUROSPIN PUGLIA SRL

rappresentato e difeso da:

VANTAGGIATO ANGELO

con domicilio eletto in LECCE

VIA ZANARDELLI 7

presso la sua sede

per l’annullamento

della autorizzazione commerciale per medie e grandi strutture di vendita, n. 8086 del 23 maggio 2007, rilasciata dal Dirigente del settore AA.PP.del Comune di Martano, in favore della “Eurospin Puglia S.p.A.”; della autorizzazione igienico sanitaria per medie e grandi strutture di vendita n. 8094 del 23 maggio 2007, rilasciata dal Dirigente del settore AA.PP. del Comune di Martano in favore della “Eurospin Puglia S.p.A”; del certificato di agibilità prot.n. 6219/07 del 22 maggio 2007, rilasciato dal responsabile del 3° settore del Comune di Martano in favore della “Eurospin Puglia S.p.A.”; dell’atto di assenso tacito del Comune di Martano eventualmente intervenuto nei riguardi della denuncia di inizio attività edilizia, presentata ai sensi degli artt. 22 e 23 D.P.R. n. 380/01 dalla “Eurospin Puglia S.p.A.”, in data 20 giugno 2006, nonché della stessa denuncia inizio attività e della non interdizione dell’opera da parte del Comune di Martano; del permesso di costruire relativo alla pratica edilizia n. 133/2006 prot. n. 14148/2006 del 4 maggio 2007, rilasciata dal responsabile del 3° settore del Comune di Martano, in favore della “Eurospin Puglia S.p.A.”; del permesso di costruire relativo alla pratica edilizia n. 155/2006 prot. n. 17074/2006 del 4 maggio 2007, rilasciata dal responsabile del 3° settore del Comune di Martano in favore della “Eurospin Puglia S.p.A.”; tutti conosciuti dal ricorrente a seguito di specifico accesso agli atti, il 6 giugno 2007; nonché,ove occorra, nei limiti dell’interesse del ricorrente, di ogni altro atto comunque connesso, presupposto e consequenziale;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della controinteressata Eurospin Puglia s.p.a.;

Vista l’ordinanza di questo T.A.R. n. 900 del 26 settembre 2007;

Visti gli atti tutti della causa;

Udito alla pubblica udienza del 19 Novembre 2008 il relatore Pres. Aldo Ravalli ed uditi, altresì, per la parte ricorrente l’Avv. Greco De Pascalis, in sostituzione dell’Avv. Russo, e per la controinteressata l’Avv. Vantaggiato;

Visto l’atto di rinuncia al ricorso depositato il 5 settembre 2008 dal legale della parte ricorrente;

Considerato che va preso atto di detta rinuncia notificata alle controparti;

Ritenuto dover disporre la compensazione delle spese di giudizio;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, Prima Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 1238/07, lo dichiara estinto per rinuncia.

Spese compensate.

Così deciso in Lecce, in camera di consiglio, il 19 novembre 2008.

Aldo RAVALLI – Presidente, estensore

Pubblicata mediante deposito

in Segreteria il 31 gennaio 2009

N.R.G. 1238/2007

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it

Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce 64/2009

Composto dai Signori Magistrati:

Aldo Ravalli Presidente

Luigi Viola Consigliere

Massimo Santini Referendario est.

Ha pronunziato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 797/2006 proposto da “La Sicurezza” s.r.l., istituto di vigilanza privata, in persona del legale rappresentante sig. Giuseppe Cantore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Tommaso Savito e Giorgia Calella ed elettivamente domiciliata in Lecce alla via De Pietro n. 11 presso lo studio dell’Avv. Carmela Convertini;

contro

l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Raffaele Carducci ed elettivamente domiciliato presso l’Avvocatura dell’INPS di Lecce in viale Marche n. 12;

nonché nei confronti

della società IVRI (Istituti di Vigilanza Riuniti d’Italia) s.p.a., in persona del legale rappresentante sig. Salvatore Cuttano, rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Nilo ed elettivamente domiciliata in Lecce alla via 95° Rgt. Fanteria n. 9 presso lo studio dell’Avv. Prof. Ernesto Sticchi Damiani;

per l’annullamento

1. Del verbale in data 15 dicembre 2005 di aggiudicazione provvisoria del servizio di vigilanza privata, con il quale si disponeva altresì l’esclusione della ditta ricorrente;
2. Della conseguente aggiudicazione definitiva;
3. Della lettera invito, nella parte in cui subordinava l’ammissibilità delle singole offerte al rispetto dei limiti di oscillazione stabiliti dal Prefetto di Taranto con determinazione in data 20 dicembre 2002;
4. Di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale.

Visto il ricorso straordinario e l’atto di costituzione in giudizio ai sensi dell’articolo 10 del D.P.R. n. 1199/1971, con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’amministrazione resistente e della società controinteressata;

Viste le memorie rispettivamente prodotte dalle parti a sostegno delle proprie difese;

Visti tutti gli atti di causa;

Designato alla pubblica udienza del 19 novembre 2008 il relatore Massimo Santini, referendario, presenti altresì l’Avv. Calella per il ricorrente e l’Avv. Perrone, in sostituzione dell’Avv. Nilo, per la società controinteressata;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

La società ricorrente partecipava alla licitazione privata concernente l’affidamento del servizio di vigilanza armata, diurno e notturno, da svolgersi presso la sede INPS di Martina Franca.

Nel formulare la propria offerta, la società stessa indicava in euro pari a zero il servizio di vigilanza notturna da svolgersi mediante collegamento con teleallarme.

In ragione di tale offerta la ditta veniva esclusa dalla gara in quanto il decreto prefettizio sulle tariffe di legalità in vigore, per il particolare servizio dei “collegamenti radio allarme bidirezionale”, fissava un canone mensile non inferiore ad euro 305,03. La commissione di gara riteneva al riguardo che l’offerta “a costo zero” di detto servizio fosse eccessivamente inferiore rispetto alla richiamate tariffe di legalità.

La società esclusa proponeva allora ricorso straordinario al Capo dello Stato per violazione degli artt. 134 e 135 del TULPS, con particolare riferimento ai principi di libera concorrenza, in applicazione dei quali le c.d. tariffe di legalità fissate dal Prefetto non dovrebbero essere ritenuti come prezzi minimi inderogabili, ma soltanto quali parametri di congruità dell’offerta. L’offerta a costo zero sarebbe stata qui peraltro giustificata da analoghi servizi già svolti sul territorio dall’istituto interessato.

Con atto di opposizione notificato in data 22 aprile 2006, la società contro interessata IVRI, aggiudicataria del servizio predetto, esercitava l’opzione di cui all’art. 10 del DPR n. 1199 del 1971 affinché il ricorso fosse deciso in sede giurisdizionale.

Si costituiva pertanto avanti questo Tribunale amministrativo la ditta ricorrente, proponendo gli stessi motivi già formulati in sede di ricorso straordinario e formulando altresì istanza di risarcimento danni.

Si costituivano in giudizio l’INPS e la società contro interessata per chiedere il rigetto del gravame.

Con ordinanza n. 631 del 7 giugno 2006, questa sezione rigettava l’istanza di tutela cautelare considerato che, “a prescindere dalla legittimità in astratto di una previsione di lex specialis la quale connetta un effetto escludente a qualunque (pur lieve) scostamento fra le tariffe prefettizie e l’offerta presentata dalla ditta ricorrente, a conclusioni diverse può giungersi nel caso di specie, in cui non appare irragionevole l’esclusione di una ditta la quale si è proposta in sede di offerta di effettuare una parte rilevante del servizio posto a gara (il collegamento radio allarme bidirezionale) non già semplicemente ad un costo inferiore rispetto a quello dedotto in tariffa, bensì addirittura a costo zero”.

Il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 4928 del 2 ottobre 2006, rigettava poi l’appello proposto avverso la predetta ordinanza, “avuto riguardo al contenuto dell’offerta e alla prescrizione del bando di gara”.

In vista dell’udienza pubblica la società ricorrente depositava memorie con le quali, nel ribadire la tesi già esposta nel ricorso introduttivo, lamentava altresì l’omesso giudizio di verifica, da parte della amministrazione aggiudicatrice, circa l’anomalia dell’offerta.

All’udienza pubblica del 19 novembre 2008 la causa veniva infine trattenuta in decisione.

DIRITTO

01. Il ricorso è infondato per i motivi di seguito indicati.

1. Nel valutare la legittimità o meno della clausola che prevede l’esclusione delle offerte presentate in difformità rispetto al tariffario stabilito dal Prefetto competente per territorio, si deve infatti tenere contestualmente conto della natura di tali parametri e del contenuto dell’offerta in concreto presentata.

Ebbene, se da un lato è indubbio che le c.d. “tariffe di legalità” – soprattutto a seguito delle modifiche apportate al TULPS dal decreto-legge n. 59 del 2008 – rappresentino non un vincolo inderogabile (nel minimo) ma, piuttosto, un parametro di congruità (o, se si preferisce, una “soglia di attenzione”), dall’altro lato è altrettanto indiscutibile che, quanto più ci si allontani da tali valori, tanto più l’offerta potrà apparire evidentemente incongrua.

Pertanto, risponde a criteri di ragionevolezza la clausola del bando di gara che, in ipotesi di offerta pari a zero per taluni servizi dell’appalto (ossia quando il giudizio di disvalore circa la congruità e l’affidabilità dell’offerta raggiunga il suo livello massimo), determini in sostanza la sua esclusione dalla gara.

Lo specifico motivo di ricorso deve pertanto essere rigettato.

2. Si consideri peraltro che, pur prescindendo dalla presenza dei richiamati parametri, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che la giuridica ammissibilità dell’offerta a costo zero di un servizio da parte di un’impresa partecipante ad una gara va risolta garantendo un equo bilanciamento di interessi.

Tale bilanciamento di interessi deve essere effettuato tra la libertà di scelta di cui l’imprenditore deve godere nella determinazione delle strategie di partecipazione a procedure concorsuali e il corretto svolgersi delle dinamiche concorrenziali che la stazione appaltante deve assicurare, per preservare il precetto costituzionale di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost.

In effetti, quando la stazione appaltante decide di aggiudicare una gara pubblica secondo il criterio del prezzo più basso, la discrezionalità di cui essa gode nella scelta del contraente si dirige esclusivamente verso l’elemento economico, senza particolare attenzione alla affidabilità complessiva del servizio.

Ciò non esclude, tuttavia, la necessità che le imprese partecipanti formulino l’offerta economica in rapporto ai costi che devono realmente sopportare per una adeguata organizzazione del servizio appaltato.

Per questa ragione, la possibilità, per l’impresa partecipante, di offrire a titolo gratuito alcuni servizi oggetto di appalto va valutata con estremo rigore.

La giurisprudenza di questo TAR, chiamata a pronunciarsi in fattispecie analoghe, ha affermato che l’offerta a costo zero di alcuni servizi oggetto di appalto è ammissibile solo quando l’imprenditore può realizzare economie di scala, ossia quando può giovarsi di eccezionali condizioni di favore che gli consentono di offrire a costo zero alcuni servizi, senza ripercussioni sui costi di impresa.

Dette condizioni possono ad esempio consistere nella concomitante esecuzione, nella medesima zona, di altro appalto, circostanza per effetto della quale la corretta esecuzione del servizio appaltato per ultimo può legittimamente avvenire con impiego della medesima forza lavoro e, soprattutto, alle medesime condizioni salariali, senza aggravio di oneri per l’imprenditore e, ciò che più che conta, senza una indebita compressione dei minimi contrattuali da garantire ai dipendenti dell’impresa.

Deve pertanto ritenersi che l’esecuzione di alcuni dei servizi oggetto di appalto può legittimamente essere offerta a costo zero nella sola misura in cui tale offerta poggi su eccezionali condizioni di favore che l’imprenditore può sfruttare a proprio vantaggio senza alterare l’organizzazione del servizio, né ripercuotersi sulla serietà complessiva della offerta medesima e sul libero gioco della concorrenza (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 9 gennaio 2008, n. 55).

Nella fattispecie concreta la ricorrente ha offerto a costo zero l’esecuzione di alcuni servizi di vigilanza adducendo, a motivo della offerta così formulata, che il costo zero si giustifica in quanto il servizio di vigilanza sarà svolto, nell’ambito dello stesso arco temporale, dallo stesso personale la cui remunerazione sarà coperta da quella riveniente da altri servizi.

Servizi tuttavia non meglio specificati: ed infatti, né in sede di formulazione dell’offerta né in sede di ricorso parte ricorrente è stata in grado di dimostrare la sussistenza della eventuale perfetta sovrapponibilità tra gli appalti che la ricorrente sostiene di avere in corso, essendosi la stessa limitata ad affermare che il servizio “non le comportava alcun costo, avendo già in dotazione tutti gli apparecchi per assicurare la vigilanza notturna mediante teleallarme ed avendo già del personale addetto a tale servizio per conto di altri utenti. Il margine di guadagno per il servizio di piantonamento diurno, inoltre, avrebbe consentito di coprire i costi degli ulteriori servizi offerti”. Nelle memorie di udienza dell’8 novembre 2008 afferma inoltre – sempre genericamente – che si tratta “di un servizio che veniva garantito contestualmente per un numero considerevole di utenti”.

Il Collegio ritiene, a ben guardare, che questa giustificazione non illustra a sufficienza le ragioni che hanno permesso di offrire a costo zero i servizi di vigilanza in questione, non allegandosi in altre parole elementi concreti e puntuali circostanze di fatto in base alle quali dimostrare tale assunto.

Anche tale motivo di ricorso non può dunque trovare ingresso.

3. Va infine pronunziata la inammissibilità della censura riguardante la mancata verifica dell’anomalia dell’offerta, trattandosi di motivi nuovi per la prima sollevati con memoria di udienza depositate in data 8 novembre 2008.

4. Per tutte le ragioni sopra evidenziate il ricorso deve essere rigettato.

Data la complessità delle questioni affrontate, sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, Prima Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 797/2006, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, nella Camera di consiglio del 19 novembre 2008.

Aldo Ravalli – Presidente

Massimo Santini – Estensore

Pubblicata mediante deposito

in Segreteria il 15 gennaio 2009

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it

Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia di Lecce 61/2009

composto dai Signori:

Aldo Ravalli Presidente

Ettore Manca Primo Referendario

Massimo Santini Referendario, relatore

ha pronunciato la presente
SENTENZA

Sul ricorso n. 3633/2001 presentato dalla ARETA s.r.l., in persona del legale rappresentante sig. Angelo Cozzi, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Luigi Vitali e Nicola Massari, ed elettivamente domiciliata presso la Segreteria di questo TAR;

contro

il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione (oggi presso il Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale di Lecce;

per l’annullamento

del decreto n. 2552 del 28 giugno 2001 del direttore generale del Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione, con il quale è stato revocato il decreto n. 745 del 6 marzo 1998 di concessione delle agevolazioni in favore della società ricorrente.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Vista la costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata;

Visti tutti gli atti di causa;

Designato alla pubblica udienza del 3 dicembre 2008 il relatore Massimo Santini, referendario, presente altresì l’Avv. Massari;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

La ricorrente beneficiava di agevolazioni disposte, con decreto dirigenziale n. 745 del 6 marzo 1998, in relazione al patto territoriale di Brindisi per la realizzazione di alcune iniziative imprenditoriali.

La società opera nel settore dei mobili da giardino. Il finanziamento era dunque diretto ad interventi di ampliamento ed ammodernamento della struttura produttiva, in particolare attraverso l’acquisto di nuovi macchinari (presse) da impiegare per la realizzazione di una nuova linea produttiva (lettini e poltroncine).

A seguito di verifica da parte della Guardia di Finanza, l’amministrazione, pur a seguito delle osservazioni formulate a seguito di comunicazione di avvio del procedimento, disponeva la revoca del finanziamento concesso ed il recupero delle somme sino ad allora erogate in quanto, a causa della non veridicità della domanda di concessione, risultava viziato il relativo procedimento istruttorio.

Nella specie, in sede di verifica erano stati riscontrati un numero di macchinari (pari a sei) superiori rispetto a quelli per cui era stato chiesto il finanziamento (pari a quattro), e specificamente indicati nel relativo business plan. In sostanza, continuavano ad operare due macchinari della gestione ante finanziamento.

L’interessato interponeva dunque ricorso giurisdizionale sollevando le seguenti censure:

1. Violazione della legge n. 241 del 1990 nella parte in cui il diretto interessato non è potuto intervenire tramite audizione personale;
2. Difetto di motivazione circa il pregiudizio istruttorio, e ciò tenuto conto che gli obiettivi di ampliamento ed ammodernamento sono stati nel tempo raggiunti;
3. violazione del decreto ministeriale 31 luglio 2000, n. 320, laddove non sono state commesse dalla ricorrente violazioni tali da comportare la revoca delle agevolazioni ai sensi dell’art. 12 del richiamato DM;
4. Eccesso di potere per travisamento di fatti, atteso che i due macchinari aggiuntivi, poiché obsoleti, non potevano essere impiegati per la realizzazione della nuova linea produttiva;
5. Difetto di istruttoria, in quanto il business plan, per sua natura, si riferisce ai soli fattori della produzione impiegabili nel nuovo processo industriale.

Si costituiva in giudizio l’amministrazione, la quale chiedeva il rigetto del gravame.

Con ordinanza n. 1569 del 19 dicembre 2001, questo Tribunale accoglieva l’istanza cautelare, stante la non manifesta infondatezza del’impugnativa, limitatamente al recupero disposto.

Con memoria in vista dell’udienza pubblica, la ricorrente faceva altresì presente che sul tema della revoca dei contributi la giurisprudenza, da ultimo, si è espressa in favore della giurisdizione dell’AGO.

All’udienza pubblica del 4 giugno 2008, la causa veniva infine trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Si affronta preliminarmente la questione di giurisdizione.

In tema di revoca dei finanziamenti pubblici, il collegio è ben consapevole dell’esistenza di un orientamento in base al quale sussisterebbe, in materia, la giurisdizione dell’AGO.

Tale indirizzo si fonda essenzialmente sulla considerazione che, mentre in vista della ammissione al beneficio l’attività della PA è connotata da poteri discrezionali (con conseguente individuazione di posizioni di interesse legittimo che, come tali, non possono che essere conosciute dal GA), all’esito della liquidazione del contributo economico si determina un credito dell’impresa, instaurandosi così un rapporto paritetico tra concedente e concessionario connotato da diritti e obblighi consistenti, per quel che riguarda il concessionario, nel diritto alla corresponsione del contributo e nell’obbligo di realizzare le opere per le quali il contributo è stato erogato; a sua volta il concedente, dopo la deliberazione e liquidazione del contributo, non ha più alcun potere discrezionale, ma solo il potere di controllare l’esatto adempimento degli obblighi del concessionario.

In questa direzione, il procedimento di revoca disciplinato dalla normativa di riferimento rivestirebbe natura eminentemente vincolata, atteso che è la legge a predeterminare integralmente le ipotesi da cui scaturisce l’eventuale provvedimento restrittivo.

Ritiene il collegio che la questione debba essere esaminata sotto una diversa angolazione.

In via preliminare, si osserva come il richiamato indirizzo ricalchi il classico riparto in tema di contratti pubblici, ove si rinviene sia una fase autoritativa, prima dell’aggiudicazione (con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo), sia una fase paritetica, dopo la aggiudicazione stessa e in particolare a seguito della stipulazione del contratto di appalto (le cui controversie sono pacificamente attribuite all’AGO).

Trasponendo siffatte coordinate sostanziali e processuali alla fattispecie de qua, emerge tuttavia che, in tema di contributi pubblici: a) non si stipula un contratto (la concessione rimane infatti regolata dall’atto di concessione, dunque non v’è incontro di volontà ma pur sempre adozione di atti unilaterali ed autoritativi da parte della PA); b) non si ravvisa un rapporto sinallagmatico in senso pieno atteso che il programma realizzato dal privato, anche a volerlo intendere in termini di controprestazione, resta tuttavia nella sua esclusiva disponibilità, senza che la collettività – diversamente da quanto avviene per le opere pubbliche – possa trarne utilizzo alcuno.

In ulteriore e più approfondita analisi, si rileva come le ipotesi di revoca descritte dal bando di concorso non sembrino in effetti condizionate da alcuna valutazione discrezionale né tecnica (si veda in ogni caso la possibilità di accordare proroghe in merito al completamento del programma), dipendendo la stessa dal mero accertamento circa la sussistenza, o meno, di un presupposto normativamente predeterminato.

Di qui la deduzione dell’esistenza, secondo il ricordato orientamento, di un vero e proprio diritto soggettivo in capo all’interessato, atteso che l’atto di revoca assumerebbe natura meramente dichiarativa, in quanto tale sfornito di quell’attitudine degradatoria che, sola, determina la nascita di posizioni di interesse legittimo.

A tale riguardo il collegio evidenzia, tuttavia: in primo luogo, che “le valutazioni espresse dall’Amministrazione nell’espletamento dei suoi poteri pubblicistici, come riconosciuti da una norma, sono sempre sindacabili avanti al giudice amministrativo per i loro profili estrinseci, vale a dire in ordine alla loro logicità, non contraddittorietà o erroneità in fatto, sicché la circostanza per la quale la procedura per il riconoscimento dell’inadempimento del beneficiario di contributi pubblici sia attinente ad aspetti rigidamente predeterminati sul piano normativo, come evidenziato dall’Amministrazione resistente, di per sé non esclude, a priori, la possibilità di tutela avanti al giudice naturale, anche ai sensi del principio generale di cui all’art. 24 Cost., per la verifica dei profili sopra ricordati” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 17 settembre 2007, n. 2959).

In secondo luogo, che l’acclarata natura vincolata dell’attività demandata all’amministrazione non comporta in modo automatico la qualificazione della corrispondente posizione soggettiva del privato in termini di diritto soggettivo, con ogni conseguenza processuale in chiave di riparto di giurisdizione.

Come più volte evidenziato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (cfr. sentenze n. 18 del 1999 e n. 8 del 2007), sembra infatti doversi distinguere, “anche in seno alle attività di tipo vincolato, tra quelle ascritte all’amministrazione per la tutela in via primaria dell’interesse del privato e quelle, viceversa, che la stessa amministrazione è tenuta ad esercitare per la salvaguardia dell’interesse pubblico. Anche a fronte di attività connotate dall’assenza in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità valutativa o tecnica, quindi, occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l’attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l’interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo”.

In un’altra decisione della Adunanza Plenaria (sentenza n. 12 del 2007), è stato inoltre ritenuto che, per affermare la giurisdizione del giudice amministrativo, rileva non solo l’accertamento della qualifica di autorità del soggetto agente, ma anche “la strumentalità del suo agire ai fini della realizzazione degli scopi di interesse pubblico la cui cura è ad essa commessa”.

Applicando alla fattispecie le esposte coordinate ricostruttive, ritiene questo collegio che la controversia debba essere correttamente ritenuta di competenza del giudice amministrativo.

E ciò in quanto non pare revocabile in dubbio che l’attività amministrativa relativa alla concessione di contributi pubblici sia effettuata – anche e soprattutto nella fase di verifica circa l’effettivo utilizzo delle somme erogate – in funzione di “tutela dell’interesse pubblico alla miglior gestione ed allocazione delle risorse della collettività e non a quella privata ad acquisire un mero vantaggio” (cfr. TAR Piemonte, cit.).

Più in particolare, l’interesse pubblico perseguito in via diretta dalla norma primaria, che si realizza anche mediante l’attività di accertamento successiva alla erogazione delle sovvenzioni, riguarda il corretto utilizzo di risorse pubbliche destinate ad un proficuo e virtuoso sviluppo dell’economia locale.

È noto infatti come l’Unione Europea, per il tramite degli Stati membri, intervenga ai sensi del trattato istitutivo attraverso misure di sostegno alle attività imprenditoriali (c.d. fondi strutturali) in chiave di riequilibrio territoriale e, dunque, di coesione economica e sociale.

L’obiettivo è in particolare quello di promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale delle aree in ritardo di sviluppo, nonché di sostenere la riconversione socioeconomica delle zone con difficoltà strutturali.

Occorre soprattutto rimarcare come siffatti interventi, in funzione correttiva del mercato, non si limitino a risollevare unicamente le sorti dei singoli soggetti operanti sul mercato, ma siano altresì diretti a creare esternalità positive (o “economie esterne”): fenomeno, questo, con cui si intendono gli effetti che certe attività poste in essere da uno o più soggetti provocano su altri soggetti non direttamente coinvolti nell’esercizio di quelle attività.

Lo sviluppo di una impresa che riceve contributi pubblici si riflette positivamente, infatti, su altre imprese (es. fornitori, artigiani) che si trovino ad operare con essa e attraverso la quale sono in grado di acquisire maggiori occasioni di lavoro (ordini, commesse, etc.).

Di qui l’innescarsi, attraverso meccanismi di interdipendenza funzionale tra soggetti operanti anche su diversi segmenti di mercato, di uno sviluppo in senso virtuoso dell’economia locale (che in taluni casi può anche dare luogo alla nascita di un vero e proprio distretto industriale) che costituisce fondamentale obiettivo di politica economica e, dunque, interesse pubblico di primaria importanza.

Le considerazioni appena svolte inducono a ritenere che la sovvenzione erogata in favore del singolo imprenditore non possa essere valutata e considerata isolatamente, ossia con esclusivo riferimento al diretto ed immediato beneficio da questo ottenuto, ma con riguardo altresì a quell’insieme di vantaggi che, attraverso un meccanismo di relazioni economiche interdipendenti, è in grado di acquisire l’intero sistema economico che ruota intorno ad esso.

Da quanto sopra affermato ne deriva la giurisdizione del GA sulla revoca disposta in tema di sovvenzioni pubbliche, atteso che la finalità perseguita in via diretta dalla normativa di settore è quella di garantire il più corretto utilizzo di risorse pubbliche preordinate ad un proficuo e virtuoso sviluppo dell’economia, in questo caso di livello locale.

02. Nel merito il ricorso è peraltro fondato.

2. Va preliminarmente disattesa la censura riguardante la mancata audizione personale del ricorrente, dato che tale forma di partecipazione non è in alcun modo prescritta dalla legge generale sul procedimento, risultando più che sufficienti, al riguardo, gli apporti che il privato ritiene di produrre per iscritto.

In questa stessa direzione si è altresì espressa la giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19 maggio 2000, n. 2901).

3. Sono invece fondati i restanti motivi che, per la loro stretta connessione sul piano logico, possono essere congiuntamente esaminati.

In primo luogo, è fondato il motivo riguardante l’omessa motivazione del provvedimento, nella parte in cui non emerge il ragionamento logico e giuridico che avrebbe indotto l’amministrazione a ritenere viziato il procedimento istruttorio a causa della presenza di un numero di macchinari superiore rispetto a quelli previsti dal business plan.

Al di là della “oggettiva rilevanza” di detta omissione – peraltro giustificata da elementi da ritenere in concreto validi, come si vedrà – non è dato infatti comprendere in che modo il mantenimento di due vecchi macchinari avrebbe potuto influire sul giudizio di meritevolezza della domanda di agevolazione. Domanda che riguardava, come detto, l’ammodernamento e dunque la realizzazione di una nuova linea produttiva che, in ogni caso, poteva essere condotta esclusivamente attraverso macchinari nuovi, ossia quelli puntualmente indicati nel business plan, non anche con quelli vecchi.

Si consideri poi che gli obiettivi di ampliamento (intesa come aumento dell’occupazione) e di ammodernamento (intesa come aumento della capacità produttiva e dunque del fatturato) risultano essere stati nel tempo conseguiti, secondo quanto si evince dagli atti versati in giudizio.

Del resto, il business plan annovera i quattro (nuovi) macchinari tra quelli da utilizzare in via principale, senza per questo affermare che si tratti dei soli macchinari disponibili per l’azienda.

Lo stesso documento di programmazione, in quanto rivolto alle scelte che l’impresa intende intraprendere de futuro, non poteva certamente contemplare i due macchinari obsoleti, inidonei come già detto alla realizzazione della nuova linea di produzione. Questi ultimi, pur se operativi, potevano essere utilizzati unicamente per la produzione già esistente, non anche per quella nuova, che costituisce oggetto della agevolazione in parola.

Per di più, considerare anche i due vecchi macchinari nel business plan non avrebbe influito su una diversa modulazione del dichiarato obiettivo di incremento patrimoniale, i cui parametri sarebbero rimasti sostanzialmente immutati in quanto ancorati alla realizzazione della nuova linea produttiva, appannaggio come detto dei soli nuovi macchinari.

Senza trascurare, poi, la circostanza per cui i vecchi macchinari risultavano in ogni caso dai documenti contabili che sono stati messi a disposizione dell’amministrazione in sede di istruttoria.

In conclusione, non ricorre la fattispecie prevista dai regolamenti di settore per la revoca del finanziamento, attesa la indimostrata sussistenza di un vizio del procedimento istruttorio.

4. Il ricorso è pertanto fondato e merita di essere accolto. Per l’effetto, deve essere annullato l’atto dirigenziale n. 2552 del 28 giugno 2001 del direttore generale del Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, Prima Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 3633/2001, lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’atto dirigenziale n. 2552 del 28 giugno 2001 del direttore generale del Dipartimento per le politiche di sviluppo.

Liquida le spese del presente giudizio in euro 2.500 (duemilacinquecento), da porre a carico dell’amministrazione soccombente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, nella Camera di Consiglio del 3 dicembre 2008.

Aldo Ravalli – Presidente

Massimo Santini – Estensore

Pubblicata mediante deposito

in Segreteria il 15 gennaio 2009

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it

Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce 58/2009

Composto dai Signori Magistrati:

Aldo Ravalli Presidente

Luigi Viola Consigliere

Massimo Santini Referendario est.

Ha pronunziato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso n. 1203/2008 presentato dalla Fideco Ambiente s.r.l., in personale del legale rappresentante sig. Pier Francesco Rimbotti, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Antonella Capria. Teodora Marocco ed Angelo Vantaggiato ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Lecce alla via Zanardelli n. 7;

contro

il Comune di Manduria, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Arcangelo Maurizio Passiatore ed elettivamente domiciliato in Lecce alla via Zanardelli n. 7 presso lo studio dell’Avv. Laura Borrega;

per l’annullamento

1. della nota n. 15556 in data 28 maggio 2008 del Comune di Manduria con cui si ordina di non effettuare l’intervento diretto alla realizzazione di un impianto fotovoltaico di potenza inferiore ad 1 MW;
2. della nota di indirizzo assessorile n. 13910 del 14 maggio 2008;
3. di ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale;

nonché, con atto di motivi aggiunti

4. della nota n. 20600 del 16 luglio 2008 con cui si prescrivono ulteriori condizioni cui dovrà attenersi la richiedente;
5. della deliberazione della giunta municipale n. 158 del 12 giugno 2008.

Visti il ricorso e l’atto di motivi aggiunti con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione comunale, resistente;

Visti tutti gli atti di causa;

Designato alla pubblica udienza del 19 novembre 2008 il relatore Massimo Santini, referendario, uditi altresì gli Avv.ti Marocco e Vantaggiato per il ricorrente, e l’Avv. Passiatore per il Comune resistente;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

La società ricorrente ha presentato in data 22 febbraio 2008 denuncia di inizio attività, ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo n. 387 del 2003 e della legge Regione Puglia n. 1 del 2008, per la realizzazione di un impianto fotovoltaico di potenza pari a 0,98 MW.

In data 10 marzo 2008 il Comune di Manduria chiedeva una integrazione documentale che la società provvedeva a riscontare il successivo 21 marzo 2008.

In data 9 giugno 2008 il Comune di Manduria ordinava di non effettuare l’intervento in quanto con nota assessorile n. 13910 del 14 maggio 2008, nelle more del redigendo regolamento comunale per la disciplina dei suddetti impianti di energia rinnovabile, tutte le relative pratiche erano state temporaneamente sospese per 60 giorni, e ciò anche in applicazione della delibera regionale n. 35 del 2007.

La società interponeva dunque ricorso giurisdizionale per i seguenti motivi:

1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 23 del DPR n. 380 del 2001 (Testo Unico Edilizia), in quanto il provvedimento inibitorio è stato adottato oltre il termine perentorio di trenta giorni previsto dalla indicata disposizione affinché si formi validamente il titolo edilizio;
2. Violazione dell’art. 41 Cost. e in particolare del principio di legalità, considerato che un siffatto potere soprassessorio (concretizzatosi mediante la sospensione assessorile) non è altrimenti contemplato dalla normativa di riferimento settoriale;
3. Violazione del principio di certezza del diritto, atteso che l’ordine del comune è intervenuto una volta che il titolo edilizio si era ormai formato, con conseguente radicamento di un legittimo affidamento in capo alla società ricorrente;
4. Difetto di motivazione, in quanto non vengono esplicitate le ragioni per cui la pratica, al di là della nota assessorile, avrebbe dovuto essere sospesa;
5. Violazione dell’art. 12 del decreto legislativo n. 387 del 2003, il quale non prevederebbe in alcun modo l’esercizio di un siffatto potere regolamentare da parte delle amministrazioni comunali, il cui intervento potrebbe anzi comportare ulteriori e indebiti limiti normativi alla realizzazione di impianti ritenuti fondamentali per il raggiungimento di importanti obiettivi di politica ambientale.

Con atto di motivi aggiunti venivano poi impugnati: a) la nota n. 20600 del 16 luglio 2008 del Comune di Manduria, con la quale si invitava la società a conformarsi al regolamento comunale adottato con delibera n. 158 del 12 giugno 2008, nonché all’art. 27 della legge regionale n. 1 del 2008; b) il citato regolamento comunale n. 158 con cui, in particolare: a) si vieta l’espianto di vitigni “Primitivo doc” e di ulivi secolari al fine di installare detti impianti di energia rinnovabile; b) si richiede in ogni caso il parere dell’Ispettorato Provinciale Agricolo; c) si impone il recupero agricolo di almeno 1/3 della superficie disponibile e la perimetrazione a verde agricolo dell’area interessata dall’intervento; d) si prevede il versamento di un canone annuo a titolo di ristoro ambientale, nonché di una fideiussione a garanzia dell’eventuale smantellamento dell’impianto a fine esercizio. Al riguardo sono state dunque proposte le seguenti ulteriori censure:

6. Violazione della legge n. 239 del 2004 nella parte in cui prevede misure di compensazione ambientale disposte direttamente dal Comune, laddove la normativa di settore ascrive siffatta competenza esclusivamente in capo a Stato e regioni, peraltro per esigenze legate all’elevato impatto territoriale ed ambientale prodotto dai suddetti impianti;
7. Violazione dell’art. 23 Cost., nella parte in cui viene stabilita la corresponsione di un contributo nella sostanza riconducibile ad un tributo non altrimenti previsto da una fonte primaria;
8. Violazione della delibera regionale n. 35 del 2007, la quale prevede il versamento di fideiussioni soltanto per impianti soggetti ad autorizzazione espressa (ossia superiori ad 1 MW) e non anche per quelli sottoposti a DIA (ossia di potenza inferiore ad 1 MW);
9. Eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità nella parte in cui impone oneri di coltivazione e di trattamento del fondo (recupero agricolo di almeno 1/3 della superficie disponibile e perimetrazione a verde agricolo dell’area interessata dall’intervento) non altrimenti previsti dalla normativa vigente.

Si è costituito in giudizio il Comune di Manduria eccependo che:

1. La integrazione documentale riscontrata il 20 marzo 2008 non è sufficiente a superare la carenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi, in capo alla ricorrente, affinché il termine per la formazione del titolo edilizio possa ritenersi validamente trascorso. Dunque, poiché la documentazione è incompleta, il termine non può validamente decorrere ai fini della formazione del titolo edilizio;
2. Il contratto preliminare di locazione dell’area ove collocare l’impianto è privo della prescritta registrazione;
3. La DIA non è stata altresì sottoscritta dal proprietario dell’area, né è stato allegato il titolo di proprietà dell’area;
4. Il DURC del 25 febbraio 2008 è stato depositato tardivamente;
5. La relazione tecnica sulla asseverazione dell’area come agricola è eccessivamente sintetica e generica;
6. Manca il nulla osta sull’assenza di interferenze con le linee di comunicazioni elettroniche di cui al d.lgs. n. 259 del 2003 (richiamata nella nota circolare del MISE in data 25 giugno 2008), nonché l’assegnazione del punto di connessione da parte dell’ENEL (cfr. circolare Regione Puglia in data 1° agosto 2008);
7. Difetta il requisito dell’integrazione dell’impianto con altre strutture a carattere commerciale, industriale o di servizi, così come previsto dall’art. 27 della legge regionale n. 1 del 2008;
8. Non risulta rispettato il requisito stabilito dall’art. 2 della legge Regione Puglia n. 31 del 2008, nella parte in cui esclude la realizzazione di siffatti impianti negli ambiti territoriali estesi C e D del PUTT, né quello fissato dal successivo art. 3 della stessa legge regionale, laddove è prescritto che l’area asservita all’intervento sia estesa almeno due volte la superficie radiante;
9. Infine v’è carenza di interesse in merito alla nota assessorile di sospensione del 14 maggio 2008, dal momento che la stessa è priva di lesività diretta nei confronti del ricorrente.

Alla udienza del 19 novembre 2008 i rispettivi procuratori delle parti costituite rassegnavano le proprie conclusioni ed il ricorso veniva trattenuto in decisione.

DIRITTO

01. Il ricorso è fondato nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.

1. Si affrontano contestualmente i primi quattro motivi di ricorso, data la loro stretta connessione sul piano logico e sistematico. Essi riguardano in particolare l’ordine di non effettuare l’intervento in data 28 maggio 2008.

1.1. In primo luogo si rileva che il predetto ordine è stato adottato a seguito della scadenza del termine previsto per la formazione del titolo edilizio, che la legge fissa in trenta giorni dalla presentazione della DIA.

Quest’ultima è stata infatti presentata in data 22 febbraio 2008 ed integrata il successivo 21 marzo. Da tale data i trenta giorni – in applicazione del principio secondo cui il termine decorre dal momento in cui la documentazione è effettivamente completa – sono nuovamente scattati: il riscontro documentale integrativo del 21 marzo 2008, sul quale la PA non ha mai sollevato eccezione alcuna se non (irritualmente) in questa sede giurisdizionale, si appalesa infatti idoneo a far decorrere nuovamente il termine che – in assenza come nella specie di ulteriori interruzioni per adempimenti istruttori – è dunque venuto a scadenza il successivo 20 aprile 2008.

L’ordine di non effettuare i lavori è invece intervenuto il 28 maggio.

A tale riguardo, è ius receptum che la DIA prevista dal testo unico edilizia (TUEd) rappresenti autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell’intervento: in merito ad essa la PA svolge una eventuale attività di controllo – nel termine di trenta giorni dalla presentazione della DIA stessa – che è prodromica e funzionale al formarsi (a seguito del mero decorso del tempo) del titolo legittimante l’inizio dei lavori.

Ora, il termine di 30 giorni entro il quale l’amministrazione comunale può esercitare il potere inibitorio in relazione alla denuncia di inizio attività ex art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 è da ritenersi perentorio, sia per la certezza dei rapporti giuridici, sia perché la norma introduce nella peculiare fattispecie normativa (realizzazione di impianti di energia rinnovabile) una duplice limitazione temporanea: da un lato, allo jus aedificandi, che è facoltà attinente al diritto di proprietà; dall’altro lato, alla libera iniziativa privata in materia di attività energetica (art. 1, comma 2, legge n. 239 del 2004). Pertanto, detta limitazione temporanea non può che avere carattere perentorio, non potendo lasciarsi al mero arbitrio dell’amministrazione la disponibilità dei diritti sopra indicati, costituzionalmente garantito. Ove, pertanto, dopo la presentazione della denuncia di inizio attività decorra infruttuosamente il termine di 30 giorni previsto, la conseguenza che da ciò deriva è la formazione dell’autorizzazione edilizia implicita (cfr., in termini, T.A.R. Abruzzo L’Aquila, 8 giugno 2005, n. 433).

Prima la giurisprudenza e poi il legislatore (legge n. 80 del 2005) hanno inoltre stabilito che, una volta decorsi i termini previsti dall’art. 23 TUED, all’amministrazione residua unicamente l’attivazione del procedimento di autotutela secondo i criteri ed i parametri stabiliti al riguardo dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

Circa l’esercizio di siffatto potere non v’è tuttavia traccia nel caso di specie: avuto riguardo allo specifico contenuto del provvedimento impugnato, infatti, emerge inequivocabilmente che il Comune ha tardivamente esercitato proprio quel controllo sul progetto che l’ordinamento colloca – come già detto – perentoriamente in una fase precedente alla formazione del titolo edilizio. In altre parole, la rappresentazione delle cause ostative (sulla cui legittimità in sé, peraltro, ci si soffermerà più avanti) è stata intempestivamente posta in essere solo dopo la chiusura per silentium della fase istruttoria, ossia allorquando il tiolo edilizio doveva ritenersi già positivamente assentito.

1.2. In secondo luogo – e ferma restando la già rilevata scadenza del termine perentorio – secondo lo schema delineato dall’art. 23 TUED non è consentita la inibitoria dell’intervento che si intende realizzare se non per la riscontrata assenza di una o più delle condizioni stabilite dalla normativa vigente al momento della scadenza dei termini previsti per la formazione del titolo edilizio, senza poter mai invocare al medesimo fine atti regolamentari che allo stato risultano solo in corso di predisposizione.

1.3. Peraltro, un simile potere soprassessorio (sospensione di tutte le pratiche DIA in attesa della adozione del regolamento di settore) non appare altrimenti contemplato dalla normativa di riferimento (d.lgs. n. 387 del 2003 e DPR n. 380 del 2001). Infatti, in applicazione del principio di legalità dell’azione amministrativa ciascuna amministrazione può esercitare soltanto i poteri espressamente previsti dalla legge e secondo le modalità da questa previste. E ciò tanto più ove si tratti – come nella specie – di incidere su attività economiche: a) in via di principio soggette a (parziale) liberalizzazione (citato art. 1 della legge n. 239 del 2004); b) ritenute fondamentali per il raggiungimento di obiettivi di politica ambientale fissati a livello comunitario (direttiva 2001/77/CE, la quale prevede inoltre la riduzione di qualsivoglia ostacolo normativo) e ancor prima a livello internazionale (v. Protocollo di Kyoto).

In questa prospettiva, il provvedimento inibitorio si appalesa anzi oltremodo posto in violazione di principi fondamentali di semplificazione stabiliti dalla legislazione statale in materia di energia (d.lgs. n. 387 del 2003), la quale prevede termini come visto perentori (in particolare, 180 gg. per gli impianti superiori ad 1 MW e 30 gg. per quelli di potenza inferiore) per la conclusione dei relativi procedimenti amministrativi, sì da non tollerare una loro sospensione, quand’anche ad tempus e non sine die (cfr. Corte cost., sent. n. 364 del 2006).

Le censure qui complessivamente affrontate debbo dunque essere accolte.

2. La difesa comunale, dal canto suo, ha sollevato una serie di eccezioni per lo più dirette a rilevare il mancato, utile decorso del termine, in base a numerose argomentazioni che il collegio non ritiene tuttavia di condividere per le ragioni di seguito esposte.

2.1. Per quanto attiene alla asserita carenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi in capo alla società, tale eccezione è smentita in fatto sulla base della documentazione versata in atti, dalla quale si evince che attraverso l’integrazione documentale depositata il 21 marzo (concernente titolo di proprietà, DURC, produzione rifiuti, etc.) la ricorrente sembra avere pienamente soddisfatto la richiesta istruttoria dell’amministrazione comunale; quest’ultima, d’altra parte, nei due successivi provvedimenti del 28 maggio 2008 e del 16 luglio 2008 (oggetto del presente gravame) non ha in effetti mai provveduto a contestare il riscontro documentale sopra menzionato.

Del resto, anche le ulteriori contestazioni concernenti registrazione del contratto di locazione, dimostrazione del titolo di proprietà, tempestività di produzione del DURC e relazione asseverativa della zona agricola, oltre a non apparire meritevoli di accoglimento per genericità o infondatezza (l’attestazione della proprietà è stata prodotta così come i dati sulla regolarità contributiva), sono state sollevate esclusivamente in questa sede, senza che nelle due richiamate note del 28 maggio 2008 e del 16 luglio 2008 sia mai stata espressa al riguardo riserva alcuna.

Si tratterebbe dunque di una inammissibile integrazione postuma della motivazione dei provvedimenti impugnati.

Peraltro, qualora la carenza documentale fosse stata ritenuta dall’amministrazione sì evidente e decisiva, una volta formatosi il titolo edilizio la stessa avrebbe potuto solamente esercitare – come già detto – la prevista autotutela; prerogativa cui, nella specie, non si è fatto comunque ricorso.

2.2. Stesso discorso per quelle eccezioni sollevate in ordine al nulla-osta sull’assenza di interferenze con le comunicazioni elettroniche ed al punto di connessione ENEL: esse non possono infatti trovare ingresso in questa sede giacché rappresentano profili non altrimenti evidenziati nei provvedimenti gravati, configurandosi in tal modo come integrazione postuma della motivazione. Né è stato esercitato, al riguardo, alcun potere di autotutela.

2.3. Per quanto attiene all’ambito di applicazione dell’art. 27 della legge regionale n. 1 del 2008, ratione temporis applicabile (ossia prima della sua abrogazione da parte della legge regionale n. 31 del 2008, che ha ridisciplinato tali aspetti), essa prevede, al comma 1, che “per gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 … con potenza elettrica nominale fino a 1 MWe da realizzare nella Regione Puglia, fatte salve le norme in materia di valutazione di impatto ambientale e di valutazione di incidenza, si applica la disciplina della denuncia di inizio attività (DIA), di cui agli articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 … nei seguenti casi:

a) impianti fotovoltaici posti su edifici industriali, commerciali e servizi, e/o collocati a terra internamente a complessi industriali, commerciali e servizi esistenti o da costruire … ”.

Il successivo comma 2 prevede poi che “gli impianti di cui al comma 1 possono anche essere realizzati in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, tenuto, peraltro, conto di quanto specificato dall’articolo 12, comma 7, del d.lgs. 387/2003”.

Secondo l’interpretazione data dall’amministrazione comunale, il riferimento al comma 1 operato dal successivo comma 2 sarebbe da intendere nel senso che gli impianti fotovoltaici, pur se collocati in zona agricola, dovrebbero comunque risultare integrati con altre strutture commerciali, industriali e terziarie.

Ad avviso di questo collegio, invece, il richiamo agli impianti di cui al comma 1 deve intendersi come riferito a tutte le strutture genericamente enucleate nell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003 (disposizione questa a sua volta riportata, non a caso, dallo stesso comma 1 della norma regionale), ossia con esclusivo riguardo a tipologia, dimensioni e potenza delle medesime e non anche alla loro particolare conformazione (o meglio integrazione) strutturale.

La disposizione sembra dunque prevedere la possibilità di realizzare gli interventi de quibus anche in zona agricola (comma 2), a prescindere dalla loro integrazione strutturale con altri impianti a carattere industriale, commerciale o di servizi (comma 1).

D’altra parte, nella prospettiva indicata dalla difesa comunale la legge regionale, oltre che ad introdurre una ultronea specificazione, avrebbe altrimenti giustificato, in questo modo, la presenza di talune strutture (per l’appunto industriali, commerciali, etc.) all’interno di aree (agricole) con esse incompatibili sotto il profilo urbanistico.

L’interpretazione cui il collegio ritiene invece di aderire è peraltro l’unica a consentire una lettura costituzionalmente compatibile della disposizione in parola, considerato che la possibilità giuridica di installare tali impianti anche in zone agricole rappresenta un principio fondamentale della legislazione statale in materia di energia (art. 12, comma 7, d.lgs. n. 387 del 2003).

Concludendo sul punto, per siffatte strutture deve osservarsi il procedimento DIA e non quello dell’autorizzazione espressa.

2.4. In ultimo, la legge regionale n. 31 del 2008 non è chiaramente applicabile al procedimento de quo, atteso che al momento della sua entrata in vigore il titolo – come ampiamente dimostrato nei punti che precedono – si era già validamente formato (art. 7, comma 1, della legge regionale n. 31 del 2008).

2.5. Per tutte le ragioni sopra evidenziate (2.1. – 2.4.), le eccezioni sollevate dalla difesa comunale debbono essere integralmente respinte.

3. Valutata in questi termini – ossia per tardiva inibitoria e comunque per inammissibile sospensione – l’illegittimità del provvedimento in data 28 maggio 2008, illegittimità che per le stesse ragioni si estende altresì alla successiva nota del 16 luglio e, in parte qua, alla nota di indirizzo assessorile del 14 maggio 2008, si rileva conseguentemente come, al momento della adozione della delibera di giunta n. 158 del 12 giugno 2008, il titolo edilizio fosse già validamente formato: pertanto, in ossequio al principio tempus regit actum, la predetta delibera non può ritenersi applicabile al caso di specie. Per mero dovere di completezza il collegio non si esime in ogni caso dal ritenere che:

3.1. Sussiste in capo al Comune il potere di disciplinare la realizzazione e, più in particolare, l’ubicazione degli impianti di energia rinnovabile.

Il favor legislativo per le fonti rinnovabili, che si riverbera tra l’altro sulla possibilità di installare gli impianti suddetti anche in zona agricola, non è infatti senza limiti.

Dal quadro normativo che regola la materia (decreto legislativo 387 del 2003 e legge regionale n. 31 del 2008) emerge infatti che le amministrazioni comunali, nel favorire l’installazione di impianti di energia pulita, conservino in ogni caso un certo potere discrezionale teso a disciplinare – se del caso anche mediante atti regolamentari a carattere generale, come nella specie – il corretto inserimento di tali strutture nel rispetto dei fondamentali valori della tradizione agroalimentare locale e del paesaggio rurale.

3.2. Le prescrizioni concernenti il recupero agricolo ed ambientale dell’area asservita all’impianto sembrano poi rispondere a canoni di proporzionalità e ragionevolezza, non comportando le stesse preclusioni di fatto alla realizzazione delle strutture de quibus. In applicazione dei poteri espressamente previsti da art. 12, comma 7, del d.lgs. n. 387, infatti, il Comune ben può imporre talune condizioni di esercizio al fine di consentire – come già anticipato – una adeguata tutela del paesaggio rurale e delle tradizioni agroalimentari delle comunità locali.

3.3. Appare invece illegittima la previsione relativa alla compensazione ambientale. E ciò alla stregua della legge n. 239 del 2004, la quale, oltre ad ancorare tali misure alla sussistenza di determinati presupposti (presenza di “concentrazioni territoriali di attività, impianti ed infrastrutture ad elevato impatto territoriale”), prevede in ogni caso che le stesse possano essere disposte dallo Stato o dalla Regione, non potendo unilateralmente essere stabilite da un singolo Comune (Cons. Stato, sez. III, parere 14 ottobre 2008, n. 2849).

3.4. Appare in ultimo esente da vizi di legittimità la previsione di una fideiussione posta a garanzia della rimozione dell’impianto in caso di cessazione dell’attività.

Tale adempimento, comunemente richiesto nella prassi (in materia di governo del territorio si veda altresì la c.d. garanzia “a prima richiesta” da presentare per gli oneri di urbanizzazione), non costituisce infatti una prestazione impositiva ex art. 23 Cost., come tale da prevedere solo per legge, quanto piuttosto una obbligazione contrattuale da assumere con terzi soggetti (garanti) che la amministrazione comunale, in applicazione di principi di diritto comune cui la stessa può legittimamente ricorrere (cfr. art. 1-bis della legge n. 241 del 1990), ritiene di “chiedere” al fine di cautelarsi dinanzi ad eventuali inadempimenti del privato (nella specie concernenti l’obbligo di rimuovere gli impianti in caso di cessazione dell’attività).

4. Per tutte le considerazioni esposte il ricorso è fondato e deve essere pertanto accolto. Per l’effetto annulla la nota n. 15556 in data 28 maggio 2008, la nota n. 20600 del 16 luglio 2008 e, con riferimento alla sospensione delle pratiche DIA, la nota di indirizzo assessorile n. 13910 del 14 maggio 2008.

Sussistono in ogni caso giusti motivi, data la novità delle questioni affrontate, per compensare tra le parti le spese e le competenze del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, Prima Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 1203/2008, lo accoglie e per l’effetto annulla:

1. la nota n. 15556 in data 28 maggio 2008;
2. la nota n. 20600 del 16 luglio 2008;
3. nei sensi e nei limiti indicati in motivazione, la nota di indirizzo assessorile n. 13910 del 14 maggio 2008.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce, nella camera di consiglio del 19 novembre 2008.

Aldo Ravalli – Presidente

Massimo Santini – Estensore

Pubblicata mediante deposito

in Segreteria il 15 gennaio 2009

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it