Cassazione Civile, Sentenza 23277 del 2010 Il tombino sporge? Il Comune paga se non c’è il segnale di pericolo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.

[[OMISSIS]], con atto di citazione notificato il 12 gennaio 1989, convenne in giudizio il Comune di [OMISSIS] chiedendo il ristoro dei danni patiti a seguito di una caduta, determinata dallo stato di dissesto del fondo stradale.

L’ente, costituitosi in giudizio, contestò la domanda attrice.

Con sentenza del 12 febbraio 2004 il Tribunale di Napoli rigettò la domanda.

Su gravame della soccombente, la Corte d’appello l’ha invece ritenuta fondata e, per l’effetto, ha condannato il Comune di [OMISSIS] al pagamento in favore della [OMISSIS] della somma di euro 55.798,54.

Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, illustrato anche da memoria, il Comune di [OMISSIS], formulando un solo, complesso motivo con pedissequo quesito.

Ha resistito con controricorso la [OMISSIS].

Il giudizio, rinviato a nuovo ruolo all’udienza del 19 febbraio 2006, a seguito del decesso del difensore dell’intimata, è stato trattato e deciso all’udienza odierna.

Motivi della decisione

1. Nell’unico mezzo il Comune di [OMISSIS] lamenta insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia. Oggetto della critica è il convincimento del giudice a quo in ordine alla eziologia dell’evento lesivo. Secondo la Corte territoriale, invero, l’instabilità del tombino sul quale la [OMISSIS] era andata ad inciampare costituiva evento imprevedibile, e quindi insidia per l’ignaro passante, idonea all’affermazione dell’efficienza causale della condotta della P.A. nella determinazione dell’evento.

Sostiene invece il deducente che, considerate le caratteristiche di tempo e di luogo in cui si era verificato il sinistro, l’attrice bene avrebbe potuto prevedere un pericolo per la sua incolumità e, conseguentemente, adottare tutte le cautele necessarie ad evitare che esso si materializzasse, transitando sul lato della strada non interessato dai lavori.

2. La doglianza è infondata.

È consolidata affermazione di questo giudice di legittimità che, in tema di responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, qualora non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ., in quanto sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre spetterà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).
Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione degli artt. 2051, 2043 e 1227 cod. civ., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato dell’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità (confr. Corte cost. n. 156 del 1999).

2.1. Principio altrettanto pacifico è poi che, allorquando si faccia valere la responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per danni subiti dall’utente a causa delle condizioni di manutenzione di una strada pubblica, la valutazione della sussistenza di un’insidia, caratterizzata oggettivamente dalla non visibilità e soggettivamente dalla non prevedibilità del pericolo, costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente e logicamente motivato (confr. Cass. civ., 19 luglio 2005, n. 15224).

3. Venendo al caso di specie, il giudice di merito ha affermato che l’instabilità del tombino costituiva, in mancanza di qualsivoglia segnalazione dei lavori in corso e di recinzione della zona interessata, un pericolo occulto e imprevedibile, segnatamente rimarcando l’incongruità della linea difensiva della convenuta amministrazione – volta a rovesciare sull’infortunata la responsabilità dell’accaduto – alla luce del criterio, di elementare buon senso, che proprio per la mancanza di ogni segnalazione, l’utente poteva camminare indifferentemente sull’uno o sull’altro lato della strada.

Ciò significa che il decidente ha valutato, in termini che non possono essere tacciati di implausibilità e di illogicità rispetto al contesto fattuale di riferimento, la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del presidio generale di cui all’art. 2043 cod. civ. e ha poi dato del suo convincimento una motivazione esaustiva e corretta. Tanto basta perché la relativa valutazione si sottragga al sindacato di questa Corte.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessivi euro 4.200 (di cui euro 200 per spese), oltre IVA e CPA, come per legge.

Depositata in Cancelleria il 18/11/2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 24-11-2010) 20-01-2011, n. 1798 Detenzione abusiva e omessa denuncia

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Svolgimento del processo

R.G. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con la quale la corte di appello di Lecce rideterminava la pena inflitta per il reato di cui al R.D. n. 635 del 1940, art. 58 a lui contestato per non avere comunicato alla locale stazione di p.s. il trasferimento della pistola marca Beretta calibro 6,25.

Deduce in questa sede il ricorrente:

1) travisamento della prova e vizio di motivazione non avendo la corte di merito valutato le dichiarazioni dell’ispettore C. il quale sentito come teste avrebbe contraddetto il carabiniere B. autore dell’informativa di reato;

2) erronea applicazione dell’art. 162 bis c.p.. Si rileva al riguardo che la sentenza è assolutamente carente sul piano motivazionale sul motivo di appello relativo alla mancata ammissione all’oblazione;

3) erronea applicazione dell’art. 63 c.p.p., e dell’art. 133 c.p..

Con tale ultimo motivo si fa valere anche l’avvenuta prescrizione del reato.

Motivi della decisione

In via preliminare occorre escludere alla data odierna che sta maturata prescrizione del reato in quanto lo stesso, secondo la contestazione, risulta commesso il 15 febbraio del 2006 e, pertanto, non può ritenersi ancora decorso il termine quinquennale.

Fatta tale premessa occorre rilevare la fondatezza del secondo motivo di ricorso che, nell’ordine logico, precede gli altri due motivi afferendo anch’esso a causa estintiva del reato.

Sul punto occorre rilevare, infatti, che la doglianza del ricorrente secondo la quale nessuna risposta era stata fornita dai giudici di appello sulla mancata ammissione all’oblazione non ha effettivamente ricevuto risposta dalla corte di merito che non ha in effetti affrontato la questione.

La sentenza deve essere pertanto annullata limitatamente all’omesso esame del motivo di appello concernente l’oblazione.

Di conseguenza non occorre procedere all’esame dei restanti motivi.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE annulla la sentenza impugnata limitatamente all’omessa pronuncia sulla richiesta di oblazione, con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Lecce per nuovo esame. Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-03-2011, n. 5716

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 27/4/06 la Corte d’Appello di Brescia rigettò l’appello proposto da M.G., promotore finanziario e supervisore per la Bipop Carire (poi Fineco spa ed ora Finecobank spa), avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Brescia del 24/4 – 25/7/06 con la quale gli era stata respinta la domanda del 21/6/02 diretta a far accertare l’illegittimità della risoluzione del contratto di agenzia intercorso con la Bipop Carire agenzia di Brescia e a sentir condannare quest’ultima al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, dell’indennità di risoluzione del contratto, dell’indennità suppletiva di clientela, dell’indennità accessoria e dei ratei del FIRR non ancora versati, unitamente agli accessori di legge.

La Corte territoriale addivenne a tale decisione sulla scorta delle seguenti motivazioni: era legittima la revoca al M. del mandato accessorio di supervisore, determinata dal grave inadempimento debitamente contestatogli della omessa convocazione delle riunioni settimanali di coordinamento; ai sensi del comma 4 dell’allegato 5 del contratto intercorso tra le parti la revoca del mandato accessorio determinava il diritto alla risoluzione de contratto di agenzia e, pertanto, non gli spettavano l’indennità sostitutiva di preavviso, nè quelle di scioglimento del contratto e suppletiva di clientela, mentre l’indennità accessoria non gli competeva perchè difettava una delle condizioni previste dall’accordo, vale a dire la durata almeno decennale del rapporto.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il M., affidando l’impugnazione a tre motivi di censura. Resistono con controricorso la Capitalia spa – Gruppo Bancario Capitalia e la FinecoBank spa appartenente al Gruppo Bancario Capitalia.

Il ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia i vizi di violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi generali dell’ordinamento ( art. 360 c.p.c., n. 3), in relazione agli artt. 1175 – 1375 – 1455 e 1746 c.c.: sia in ordine al contestatogli inadempimento agli obblighi di buona fede e correttezza circa l’esecuzione del rapporto di agenzia, sia in merito alla ricorrenza dei presupposti legittimanti il recesso esercitato in suo danno.

In particolare il M. chiede la riforma della sentenza per la parte in cui è stata ritenuta provata la giusta causa di recesso riconducibile al fatto che egli si sarebbe reso inadempiente nell’espletamento dell’incarico accessorio affidatogli di supervisore, omettendo di convocare ogni lunedì i promotori sottoposti alla sua supervisione ed intrattenendo rapporti con una società concorrente. A sostegno di tale richiesta il medesimo adduce che gli obblighi previsti a suo carico dal contratto di agenzia erano diversi da quelli oggetto della contestazione e che si era sempre attenuto alle disposizioni di comportamento contrattualmente previste, per cui non poteva esservi stata alcuna frattura del rapporto fiduciario. Quindi, secondo la tesi del ricorrente il recesso della FinecoBank spa, avente ad oggetto il contratto collegato accessorio di supervisore e di conseguenza quello principale di agenzia, era sprovvisto della giusta causa che in astratto avrebbe consentito al preponente di non riconoscere all’agente l’indennità suppletiva di clientela, l’indennità sostitutiva del preavviso e quella di cui all’art. 1751 c.c..

Al termine del motivo il ricorrente pone il seguente quesito di diritto: "Se violi gli artt. 1175, 1375 e 1746 c.c. la sentenza impugnata sia nella parte in cui abbia ritenuto esistente l’inadempimento del ricorrente sulla base della semplice mancata organizzazione di riunioni settimanali alle quali avrebbero dovuto partecipare i promotori finanziari soggetti alla sua supervisione, sia nella parte in cui abbia omesso di considerare come il recesso esercitato, nella specie, dalla società preponente, non sia stato adeguatamente motivato." Il motivo è infondato.

Invero, la Corte territoriale ha motivato adeguatamente in merito alla gravità della specifica violazione contestata della omessa convocazione settimanale delle riunioni di coordinamento degli agenti promotori finanziari, rilevando che dalle deposizioni testimoniali era risultata chiaramente provata la sporadicità di tali riunioni (una ogni due mesi ed a volte semplicemente coincidente con le riunioni convocate dalla stessa preponente), oltre il fatto che il diretto superiore del M., vale a dire il responsabile dell’area manager della Lombardia sig. M.F., gli aveva costantemente contestato ad ogni incontro una tale inadempienza, senza contare che l’obbligo in questione era espressamente contemplato dal contratto ed insito nel tipo di incarico conferito al ricorrente. Questi aveva, infatti, l’incarico di organizzare il suo gruppo secondo un preciso programma aziendale con lo scopo di controllare preventivamente, a scadenza ravvicinata e prestabilita, l’attività svolta da ogni singolo promotore nei confronti dei clienti e gli investimenti proposti. Inoltre, era risultato provato che tutta l’organizzazione della Fineco partecipava alle riunioni settimanali convocate dai rispettivi supervisori. Nè poteva trascurarsi, ai fini della valutazione dell’importanza dell’inadempienza, la circostanza che, una volta accertata l’inefficienza del supervisore M., era dovuto intervenire di persona il capo-manager regionale M. a proporgli di rimanere ancora come agente almeno per il tempo necessario a supervisionare il suo gruppo prima di riconsegnarglielo. Pertanto, correttamente il giudice d’appello ha tratto dall’entità della provata inadempienza il convincimento della sua gravità, posto che il mancato controllo dei promotori finanziari non consentiva nemmeno di correggere eventuali scelte errate, esponendo, in tal modo, la preponente ai rischi connessi alla responsabilità che per legge fa capo alle società di intermediazione per i danni che i suoi promotori possano cagionare ai clienti.

In sostanza l’iter argomentativo seguito dalla Corte di merito nell’addivenire al convincimento della gravità dell’inadempienza contestata, a sua volta posta a base del provvedimento di recesso, è assolutamente congruo e ben motivato e non presenta vizi di carattere logico-giuridico nella valutazione dei criteri di correttezza e buona fede contrattuale che avrebbero dovuto animare costantemente il comportamento dell’agente commerciale.

2. Col secondo motivo il ricorrente si duole della insufficiente e, in parte, contraddittoria motivazione circa la liceità di un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5): la liceità della pattuizione contenuta nell’art. 3, comma 4, del contratto di agenzia, secondo il quale "la società si riserva la facoltà, in qualsiasi momento, di revocare l’incarico accessorio precedentemente conferito; in quest’ultimo caso, si applica quanto previsto dall’allegato 5", che a sua volta, al comma 4, dispone che "la revoca del mandato accessorio, di cui ai paragrafi 1 e 2, o la rinuncia ad esso da parte del promotore determinano di diritto la risoluzione del contratto di agenzia".

Il passaggio motivazionale della sentenza impugnata fatto oggetto di censura con tale motivo è in pratica quello col quale si è dato rilievo al fatto che la previsione espressa dell’allegato 5 del contratto, nel far riferimento all’indennità accessoria, stabiliva anche che alla revoca dell’incarico accessorio di supervisore conseguisse di diritto la risoluzione del contratto di agenzia e che entrambe le parti avevano concordato sul fatto che si trattava di revoca automatica che non necessitava di ulteriore giusta causa, giusta causa che rilevava solo al fine di verificare il diritto o meno all’indennità di preavviso e a quella di cessazione del rapporto. L’odierno ricorrente contesta che le parti avessero concordato sul fatto che si trattava di una revoca automatica che non necessitava di ulteriore giusta causa e nel contempo sostiene che l’arbitraria previsione contrattuale, ad opera della Bipop Carire spa, della disciplina delle indennità di preavviso e di cessazione del rapporto, concerneva, tutt’al più, l’accessorio incarico di supervisore e giammai quello di promotore finanziario.

Inoltre, il medesimo ritiene che la clausola contrattuale per la quale la preponente avrebbe potuto revocare in qualsiasi momento l’incarico accessorio di supervisione, senza necessità di addurre una giusta causa e senza necessità di riconoscere al supervisore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva prevista dall’art. 18 del contratto di agenzia, doveva essere limitata solo all’incarico accessorio e non poteva essere estesa all’intero contratto e, cioè, anche all’incarico principale di promotore finanziario. Diversamente, sostiene il M., non avrebbe avuto senso la clausola contrattuale di cui all’art. 18 che prevedeva determinati periodi di preavviso in relazione alla durata del rapporto nel caso di recesso della società. Aggiunge il ricorrente che l’obbligo di osservare il termine di preavviso di cui all’art. 18 veniva meno, per effetto della previsione di cui all’art. 17 dello stesso contratto, nei casi di mancato rispetto, da parte del promotore, di uno degli obblighi previsti a suo carico dall’art. 8 o, commi 2, 3, 4, 5, 6, 9, 11, 12, 13, da parte della società, di uno degli obblighi posti a suo carico dall’art. 10, commi 1, 3, 5, 8, ma che nessuna delle situazioni descritte dai citati commi dell’art. 8, che concerneva, comunque, l’attività di promotore finanziario e non anche quella di supervisore, poteva dirsi riferibile al suo operato, nè tanto meno gli era stata contestata.

Il quesito di diritto che il M. pone al riguardo è il seguente: "Se violi gli artt. 1175, 1362, 1363, 1366, 1368, 1370, 1372, 1374 e 1375 c.c., la sentenza impugnata, secondo cui la pattuizione contenuta nell’art. 3, comma 4 del contratto di agenzia, secondo la quale "la società si riserva la facoltà, in qualsiasi momento, di revocare l’incarico accessorio precedentemente conferito;

in quest’ultimo caso, si applica quanto previsto dall’allegato 5", che a sua volta, al comma 4, dispone che "la revoca del mandato accessorio, di cui ai paragrafi 1 e 2, o la rinuncia ad esso da parte del promotore determinano di diritto la risoluzione del contratto di agenzia" sarebbe applicabile solo all’incarico accessorio di supervisore, ovvero se solo nella revoca dell’incarico accessorio non necessiti una giusta causa e non sia necessaria la concessione di un periodo di preavviso o la relativa indennità sostitutiva.

Conseguentemente, dica la Corte se per la revoca dell’intero contratto di agenzia e, pertanto, anche dell’incarico principale di promotore finanziario, sia, comunque, applicabile quanto previsto e pattuito nell’art. 18, n. 1 e 4 e nell’art. 17, n. 2 del contratto per cui è causa.

"Anche tale motivo è infondato.

Anzitutto, il tentativo del ricorrente di circoscrivere al solo ambito dell’incarico accessorio di supervisore la previsione contrattuale di cui all’allegato 5 – comma 4, che contempla, invece, l’estensione automatica degli effetti della revoca dell’incarico accessorio al contratto di agenzia, avente come oggetto principale l’incarico di promotore finanziario, urta inesorabilmente contro il dato letterale dell’espressa ed univoca norma contrattuale, così come correttamente interpretata dalla Corte di merito, la cui valutazione al riguardo non merita, perciò, le censure innanzi elencate.

Inoltre, l’argomentazione per la quale sia la previsione contrattuale della mancanza dell’obbligo del preavviso o di corresponsione della relativa indennità sostitutiva di cui all’art. 18, sia quella della mancanza d’obbligo di giustificazione del recesso avrebbero dovuto essere intese come riferite al solo incarico accessorio di supervisore, senza alcun riflesso sull’incarico principale di promotore finanziario, non tiene conto della circostanza che è lo stesso art. 17 del contratto d’agenzia, così come riportato dal ricorrente, a prevedere espressamente che la mancata osservanza di uno degli obblighi posti a carico del promotore di cui all’art. 8, commi 2, 3, 4, 5, 6, 9, 11, 12, 13, rappresenta per la controparte motivo giustificato e sufficiente per recedere dal contratto senza obbligo di rispettare il termine di preavviso di cui all’art. 18.

Quindi, per poter provare quanto asserito, cioè che l’obbligo violato e contestato non rientrava tra quelli di cui al citato art. 8 per i quali è previsto il recesso senza obbligo di preavviso, il ricorrente avrebbe dovuto farsi carico di produrre il contratto di agenzia, onde consentire, in virtù del principio di autosufficienza che governa il giudizio di legittimità, di appurare la fondatezza o meno del rilievo svolto.

Invero, non può ritenersi, a tal fine, sufficiente il generico richiamo, in calce al presente ricorso, ai fascicoli di parte dei precedenti gradi del giudizio ove sarebbero contenuti gli atti ed i documenti cui si fa semplicemente riferimento nel ricorso stesso.

Infatti, a tal proposito si è già avuto modo di statuire (Cass. sez. 3 Ord. n. 15628 del 3/7/2009) che "in tema di ricorso per cassazione, il soddisfacimento del requisito di cui all’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 6, postula che nel detto ricorso sia specificatamente indicato l’atto su cui esso si fonda, precisandosi al riguardo che incombe sul ricorrente l’onere di indicare nel ricorso non solo il contenuto di tale atto, trascrivendolo o riassumendolo, ma anche in quale sede processuale lo stesso risulta prodotto. L’inammissibilità prevista dalla richiamata norma, in caso di violazione di tale duplice onere, non può ritenersi superabile qualora le predette indicazioni siano contenute in altri atti, posto che la previsione di tale sanzione esclude che possa utilizzarsi il principio, applicabile alla sanzione della nullità, del cosiddetto raggiungimento dello scopo, sicchè solo il ricorso può assolvere alla funzione prevista dalla suddetta norma ed il suo contenuto necessario è preordinato a tutelare la garanzia dello svolgimento della difesa dell’intimato, che proprio con il ricorso è posto in condizione di sapere cosa e dove è stato prodotto in sede di legittimità." 3. Con l’ultimo motivo il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto e di principi generali dell’ordinamento ( art. 360 c.p.c., n. 3), in relazione agli artt. 1175 – 1362 – 1363 – 1366 – 1368 – 1370 – 1372 – 1374 – 1375 – 1419 – 1750 – 1751 c.c., e agli A.E.C., in ordine al rifiuto del riconoscimento in capo al ricorrente sig. M.G. delle indennità di cessazione del rapporto di agenzia, di mancato preavviso e suppletiva di clientela.

Al riguardo viene posto il seguente quesito di diritto: "Dica la Corte se costituisca violazione degli artt. 1175 – 1362 – 1363 – 1366 – 1368 – 1370 – 1372 – 1374 – 1375 – 1419 – 7750 – 1751 c.c., e agli A.E.C., con riferimento all’Accordo Economico Collettivo per la disciplina del rapporto di agenzia e rappresentanza commerciale del settore del commercio stipulato in data 9 giugno 1988, modificato con il verbale di accordo del 27/11/1992 e al D.Lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, il mancato riconoscimento in capo al sig. M.G. delle indennità di scioglimento del contratto di agenzia ex art. 1751 c.c., dell’indennità di mancato preavviso ex art. 1750 c.c. e dell’indennità suppletiva di clientela prevista dagli A.E.C., peraltro richiamati dall’art. 1, comma 2 e 24, del contratto di agenzia per cui è causa. "Orbene, non può trascurarsi, anzitutto, di rilevare che il presente motivo denota evidenti profili di improcedibilità e di inammissibilità connessi, rispettivamente, alla mancata produzione dell’accordo collettivo, rispetto al quale si invoca la denunziata violazione di cui sopra, e del contratto d’agenzia, della cui mancanza si è già argomentato in occasione della disamina del secondo motivo di censura. Questa Corte ha, infatti, chiarito (Cass. sez. lav. n. 15495 del 2/7/2009) che "l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda-imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui al citato D.Lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dagli artt. 1362 cod. civ. e seguenti e, in ispecie, con la regola prevista dall’art. 1363 cod. civ., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa".

In effetti, la produzione dell’accordo collettivo di riferimento avrebbe consentito, nella fattispecie, di verificare quanto affermato dal giudice d’appello in merito al fatto che al M. non competeva l’indennità suppletiva di clientela per effetto della revoca per giusta causa dell’incarico, ipotesi, questa, contemplata dagli A.E.C., di settore, così come accertato dallo stesso giudicante. In ogni caso il motivo è anche infondato per la ragione che si è già avuto modo di statuire che "nell’ambito del rapporto di agenzia, all’autonomia delle parti è dato di derogare convenzionalmente alla disciplina legale del recesso, anche riguardo al preavviso, come può avvenire in generale per i rapporti contrattuali a durata indeterminata (escluso il rapporto di lavoro subordinato, ex art. 2118 c.c.); pertanto può anche essere contrattualmente ridotta la durata del preavviso fino, al limite, ad escluderne la necessità." (Cass., sez. lav., 06-11-2000, n. 14436).

Quanto all’indennità di scioglimento del contratto è corretta ed immune da censure di carattere logico-giuridico la decisione del giudice d’appello in ordine al fatto che, una volta provata, come nella fattispecie, la sussistenza della giusta causa di risoluzione del rapporto, non vi è dubbio che all’agente non spetti, non solo l’indennità sostitutiva del preavviso, ma nemmeno quella in esame che in base all’art. 1751 c.c., compete solo se lo scioglimento non sia motivato da inadempimento attribuibile all’agente. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 59,00 per esborsi e di Euro 4000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 18-02-2011, n. 496 Rapporto di pubblico impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

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Svolgimento del processo

Il ricorrente ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, deducendone l’illegittimità per violazione di legge, in relazione in particolare all’omessa comunicazione di avvio del procedimento e alla carenza di motivazione, nonché per eccesso di potere sotto diversi profili e chiedendone l’annullamento.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione resistente, chiedendo il rigetto del ricorso avversario.

Entrambe le parti hanno presentato documenti.

Con ordinanza depositata in data 22.05.2009, il Tribunale ha accolto la domanda incidentale di sospensione dell’atto impugnato.

All’udienza del giorno 11.01.2011 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1) Con l’atto impugnato il Questore della Provincia di Milano ha disposto la riattivazione del procedimento volto all’effettuazione delle trattenute sullo stipendio del Sovrintendente Capo della Polizia di Stato O.L. – in servizio presso la II zona Polizia di Frontiera per la Lombardia di Milano – al fine del recupero della somma di euro 2.564,73 oltre agli interessi legali, così come disposto nella nota prot. n. 69/ter/U.A.C./101.15/3 del 18 luglio 2008, con conseguente trattenuta sullo stipendio, nei limiti di legge, a decorrere dal mese di febbraio 2009, fino alla concorrenza della somma indicata.

L’amministrazione pone a fondamento della determinazione assunta l’esito dell’attività ispettiva disposta dall’Ufficio Centrale Ispettivo del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, emergente dalla relazione del 09.05.2006 (cfr. doc. 2 di parte resistente), espressamente indicata come atto recante le ragioni della ripetizione "delle somme percepite a titolo di indennità e rimborsi per missioni effettuate senza i necessari presupposti".

2) Per ragioni di precedenza logico giuridica va esaminata con priorità la censura mediante la quale il ricorrente lamenta, in termini di difetto di istruttoria e di carenza di motivazione, la mancanza dei presupposti per procedere alla ripetizione delle somme versate il suo favore dall’amministrazione.

La censura è fondata.

Va premesso, in considerazione delle deduzioni svolte dall’Avvocatura Distrettuale nelle memorie difensive, che la carenza di motivazione non viene lamentata in termini formalistici, ossia come mancata enunciazione dei motivi di fatto e di diritto posti a fondamento della ripetizione di indebito, ma sul piano sostanziale, ossia per evidenziare che l’atto non dimostra la sussistenza dei presupposti per la ripetizione medesima.

In tal senso, il ricorrente correla la censura anche ad una errata percezione della realtà materiale da parte dell’amministrazione.

L’esame della doglianza richiede alcune precisazioni in punto di fatto.

La ripetizione di somme posta in essere dall’amministrazione concerne "indennità e rimborsi" elargiti in relazione a nove missioni effettuate, asseritamente "senza gli indispensabili presupposti", da O. tra il 2004 e il 2006, come emerge dall’intimazione predisposta dall’amministrazione in data 18.06.2007 (cfr. doc. 3 di parte ricorrente).

La relazione ispettiva datata 09.05.2006, indicata dall’amministrazione come atto dal quale risultano le ragioni della ripetizione – secondo la tecnica della motivazione per relationem – evidenzia, nelle conclusioni, la sussistenza di "carenze organizzative" che "hanno dato spazio all’iniziativa dei singoli, permettendo ad un gruppo di effettuare… con l’avallo del dirigente e funzionario, i servizi ritenuti più importanti e meglio remunerati".

La relazione precisa che "trasparenza, efficienza ed economicità, elementi essenziali nella gestione, pur complessa, di un ufficio come quello della II zona di Polizia di Frontiera sono completamente sconosciuti nel momento in cui l’attività svolta di coordinamento, ispettiva e di controllo non trova riscontro in documenti, relazioni di servizio, verbali o quant’altro possa essere necessario al dirigente stesso, in prima battuta ed alle autorità competenti successivamente a svolgere a loro volta l’attività di verifica e di controllo".

Con riferimento alle modalità di remunerazione dei servizi in questione, gli agenti accertatori evidenziano che, sulla base dei prezzi praticati nei pubblici esercizi della località di Tirano, "tutte le missioni autorizzate in regime forfettario in quella sede non risultano economicamente vantaggiose per l’amministrazione".

Più in dettaglio, nella parte espositiva della relazione gli ispettori mettono in luce che: 1) nell’ufficio sono stati aboliti i fogli firma giornalieri per le attestazioni delle presenze e dello straordinario, sicché ciascun dipendente autocertifica la presenza con prospetti mensili che custodisce autonomamente, mentre lo straordinario viene ratificato giornalmente dal funzionario o dal dirigente; 2) O. risulta frequentemente comandato in missione in gruppo con altri con trattamento forfettario, superando ogni mese il monte ore straordinario, con la precisazione che tali attività "sono remunerate come presenze esterne mentre il restante personale effettua, generalmente, missioni di breve durata che si concludono normalmente nell’arco della giornata e di rado viene richiesto il trattamento economico forfettario"; 3) le località delle missioni sono di regola sempre le stesse e le relative ordinanze sono generiche, facendo riferimento ad attività ispettive e di controllo, nonché marginalmente ad attività connesse all’applicazione della legge 626/94; 4) agli atti non vi è traccia di relazioni di servizio in ordine all’attività svolta, sicché "non è possibile esprimere un giudizio sulla necessità che le missioni in argomento siano svolte in gruppo (sguarnendo l’ufficio) anche di 4 dipendenti, per più giorni, con l’auto di p.s. e frequentemente il rientro in sede risulta essere nelle prime ore del mattino dell’ultimo giorno di missione"; 5) al personale viene retribuita la presenza per "i servizi esterni" ogni qual volta effettuano una prestazione lavorativa all’esterno dell’Ufficio, con la precisazione che "non è stato possibile verificare la sussistenza dei requisiti per retribuire le presenze esterne per mancanza di documenti attestanti gli elementi essenziali che attribuiscono il diritto alla retribuzione della stessa né, tanto meno, la durata del servizio esterno, in quanto l’attuale normativa prevede che il servizio debba essere prestato per almeno tre ore, nonostante il dirigente dichiari mensilmente sotto la sua responsabilità, che il personale della polizia di stato inserito negli appositi elenchi ha effettivamente reso il servizio di turnazione esterna nei giorni indicati a fianco di ciascun nominativo…".

In forza dei rilievi ora ricordati, l’amministrazione, dopo avere remunerato, a titolo di indennità e rimborsi, le prestazioni rese da O. al di fuori della sede di servizio, ha agito in ripetizione di indebito, mediante la trattenuta dalla retribuzione mensile degli importi già erogati.

Tanto premesso, va osservato che la ripetizione di indebito in via amministrativa è sottoposta alla regola dell’onere della prova.

In generale, colui che ha pagato a titolo di adempimento di una determinata obbligazione pecuniaria una somma di denaro, di cui voglia ottenere la restituzione, ha l’onere di dimostrare l’indebito pagamento, ossia di provare i fatti che costituiscono il fondamento della pretesa restitutoria ai sensi dell’art. 2697 c.c. e, pertanto, non è il debitore a dover dimostrare l’esattezza del pagamento e l’infondatezza della domanda di restituzione.

La regola dell’onere della prova trova applicazione anche in relazione ai recuperi di somme erogate dall’amministrazione ad un dipendente nel quadro di un rapporto di pubblico impiego, sicché spetta all’amministrazione la dimostrazione dell’esistenza dell’indebito e la fondatezza della pretesa di recupero, sicché non è il dipendente a dover dimostrare l’infondatezza del recupero e l’esattezza delle retribuzioni o delle indennità o dei rimborsi già percepiti

Insomma, la regola sulla distribuzione dell’onere della prova, applicata a un recupero di somme erogate dall’amministrazione datrice di lavoro relativamente a prestazioni lavorative pregresse, comporta che sia l’amministrazione a dover dimostrare l’esistenza dell’indebito, ossia la fondatezza della pretesa di recupero e non il dipendente a dover dimostrare l’infondatezza del recupero e la spettanza degli importi già percepiti (cfr. sul punto, tra le altre, Consiglio di stato, sez. V, 14 maggio 2003, n. 2560; Consiglio di stato, sez. V, 20 febbraio 2006, n. 685).

I principi ora visti, oltre a riflettere la regola generale sulla distribuzione dell’onere della prova, sono coerenti con il canone generale della buona amministrazione, in quanto la ripetizione di indebito in via amministrativa presuppone che l’amministrazione abbia già valutato in modo positivo, al momento del pagamento, i presupposti per la corresponsione delle somme erogate, sicché spetta all’amministrazione medesima dimostrare che tali pagamenti sono stati effettuati in difetto dei relativi presupposti.

Nel caso di specie, l’atto impugnato si riferisce a somme elargite a titolo di indennità – senza altre specificazioni – e di rimborso, mentre la relazione ispettiva tratta, da un lato, di missioni svolte dal dipendente, dall’altro, di retribuzioni erogate per servizi esterni eseguiti da O., richiamando anche la necessità che in tale caso il servizio sia stato effettuato per almeno tre ore.

Nondimeno, dagli atti già indicati e, comunque, dalla documentazione prodotta in giudizio non emerge la mancata effettuazione delle missioni o l’insussistenza delle condizioni per la remunerazione dei servizi esterni.

In primo luogo, la relazione ispettiva, nonché l’atto impugnato che ad essa rinvia integralmente sul piano dei motivi della pretesa restitutoria, esprime l’esito di un accertamento condotto sulla gestione dell’ufficio "II Zona di Polizia di Frontiera per la Lombardia", ma non contiene valutazioni dettagliate in relazione a ciascuna delle missioni o dei servizi esterni cui si riferisce la pretesa restitutoria.

Inoltre, la relazione, pur evidenziando delle generali anomalie nella gestione delle missioni e dei servizi esterni – come ad esempio la genericità degli ordini di servizio, l’abolizione dei fogli di firma, l’omessa redazione di relazioni di servizio sull’attività svolta – non afferma, né dimostra, che le missioni e i servizi esterni remunerati dall’amministrazione in favore del ricorrente non sono stati effettuati.

Anzi, la relazione riguarda espressamente servizi prestati e missioni autorizzate.

La circostanza che nella gestione del servizio si siano, eventualmente, verificate delle anomalie (nell’assegnazione dei "servizi ritenuti più importanti e meglio remunerati", nella documentazione dei servizi medesimi, nell’organizzazione dei servizi e nella valutazione della loro opportunità) può rilevare ad altri fini, anche disciplinari, ma non basta per affermare che determinate missioni o determinati servizi esterni non siano stati prestati.

Del resto, prendendo ad esempio la prima delle missioni in contestazione – quella svolta a Tirano dal 3 al 5 febbraio 2004 (cfr. doc. 3 di parte ricorrente) – va osservato che dal certificato di viaggio prodotto dall’interessato (cfr. doc 5 di parte ricorrente) risultano non solo le date e gli orari di partenza e di rientro nella sede di servizio, ma anche le date e gli orari di arrivo e di partenza dalla sede di Tirano, con la sottoscrizione del dirigente del Settore Polizia di Frontiera di Tirano.

Analoghe indicazioni sono presenti in relazione ad altre missioni contestate (cfr. documentazione prodotta dal ricorrente).

Simili documenti, che certificano la presenza di O. presso la sede di svolgimento del servizio esterno, sono elementi sintomatici dell’effettiva prestazione del servizio.

Viceversa, le "carenze organizzative" riscontrate in sede di accertamento ispettivo nulla dicono in ordine all’omessa prestazione dei medesimi servizi, già remunerati dall’amministrazione mediante un’apposita indennità.

Le considerazioni ora svolte valgono indipendentemente dalla qualificazione delle attività prestata fuori sede come ipotesi di invio in missione o come casi di servizi esterni.

Difatti, fermo restando che proprio la relazione ispettiva richiama entrambe le fattispecie, l’amministrazione non ha provato l’insussistenza dei presupposti per il pagamento delle missioni o dei servizi esterni.

Invero, non risulta dimostrata la mancata effettuazione delle missioni, né che esse siano state effettuate in assenza di ordini di servizio, oppure in località diverse da quelle individuate dal superiore gerarchico con apposite determinazioni, neppure oggetto di interventi in autotutela da parte dell’amministrazione.

A tal fine è del tutto irrilevante il richiamo che l’Avvocatura Distrettuale (cfr. memoria depositata in data 10.12.2010) fa all’art. 6 del d.p.r. 1995 n 395 – trasfuso nell’art. 6 del d.p.r. 2007 n. 170 – in quanto tale disposizione si limita a disciplinare le modalità di remunerazione delle missioni effettuate.

Insomma, l’l’indennità di missione spetta in caso di temporaneo spostamento del luogo nel quale si presta servizio e riflette la finalità di sovvenire alle maggiori necessità derivanti dallo spostamento stesso e, quindi, di compensare le maggiori spese sostenute dal dipendente, sicché la mancata dimostrazione da parte dell’amministrazione della insussistenza delle missioni già remunerate a O. esclude la sussistenza delle condizioni per la ripetizione attivata con l’atto impugnato (cfr. in argomento Consiglio di Stato, sez. IV, 22 settembre 2005, n. 5006).

Analoghe considerazioni valgono per i servizi esterni, cui si riferisce la relazione ispettiva richiamata dall’atto impugnato.

Invero, la giurisprudenza ha già precisato che il quadro normativo di riferimento – in particolare, l’art. 9 del d.p.r. 1995 n 395 e l’art. 8 del d.p.r. 2007 n. 170 – subordina la remunerazione supplementare per i servizi esterni ad alcune condizioni, essendo necessario che si tratti: a) di servizi svolti all’ "esterno"; b) di servizi organizzati in turni (non aventi cioè carattere saltuario) di durata non inferiore al normale turno lavorativo dei militari; c) di attività espletata in base a "formali ordini di servizio" (cfr. T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 25 settembre 2008, n. 2060; Consiglio di Stato, sez. IV, 26 luglio 2008, n. 3670).

Nondimeno, anche in relazione ai servizi svolti all’esterno l’amministrazione non ha dimostrato l’insussistenza dei presupposti ora ricordati.

Le valutazioni sinora compiute non sono superate dalla circostanza che il ricorrente, unitamente ad altri dipendenti, sia stato rinviato a giudizio dalla Procura di Milano per reati asseritamente commessi e consistiti nella falsificazione dei documenti di missione (cfr. richiesta di rinvio a giudizio presente in atti).

Invero, fermo restando che l’ipotesi accusatoria non è ancora oggetto di accertamento neppure con sentenza non definitiva e fermo restando che analogo procedimento era già stato oggetto di archiviazione in sede penale, il riferimento da parte dell’Avvocatura ad una vicenda penale, neppure richiamata negli atti impugnati e la circostanza – correttamente riconosciuta dall’Avvocatura (cfr. memoria depositata in data 10.12.2010) – che si tratti di una vicenda afferente ad episodi non perfettamente sovrapponibili a quelli in contestazione, escludono la possibilità di ritenere dimostrata la mancata effettuazione dei servizi, ossia l’omesso svolgimento delle mansioni ad essi inerenti.

In definitiva, l’amministrazione ha posto in essere un’attività di recupero di somme già erogate per servizi resi senza dimostrare l’insussistenza dei presupposti per la loro remunerazione e, quindi, senza provare la fondatezza della pretesa di ripetizione.

Va, pertanto, ribadita la fondatezza delle censure in esame.

3) Viceversa, sono infondate e devono essere respinte le ulteriori doglianze articolate nel ricorso, con le quali si lamenta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, nonché l’omessa indicazione del termine e dell’Autorità cui ricorrere.

Invero, in relazione al primo profilo, va osservato che la pendenza di un procedura di ripetizione di indebito era già stata portata a conoscenza dell’interessato mediante l’intimazione di pagamento datata 18.06.2007, procedura sospesa solo temporaneamente a seguito di specifica richiesta di O..

Ne deriva che il ricorrente non solo era a conoscenza della pendenza della procedura di ripetizione, ma ha anche partecipato al procedimento amministrativo, sicché le garanzie partecipative, da intendere in senso sostanziale e non meramente formalistico, risultano rispettate nel caso concreto.

D’altro canto, la mancata indicazione del termine e dell’Autorità cui ricorrere integrano, per giurisprudenza costante, delle mere irregolarità che non incidono sulla legittimità delle determinazioni amministrative (cfr. tra le tante Consiglio Stato, sez. VI, 26 marzo 2010, n. 1751).

Va, pertanto, ribadita l’infondatezza delle censure in esame.

4) E’ infondata e va respinta la domanda risarcitoria avanzata con il ricorso.

In particolare, il ricorrente si è limitato a sviluppare delle allegazioni del tutto generiche in relazione al danno subito, sicché non risulta dimostrata la sussistenza di un presupposto indefettibile per il riconoscimento della responsabilità risarcitoria, ai sensi dell’art. 2043 c.c..

Invero, O. non ha dimostrato di avere concretamente subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza della determinazione impugnata, specie considerando che per effetto del suo annullamento l’amministrazione è tenuta a ricostituire lo status quo ante, mediante la restituzione di somme eventualmente già trattenute.

Del resto, l’asserito pregiudizio all’onore, alla reputazione e all’immagine si basa su affermazioni del tutto apodittiche, che non valgono a dimostrare l’effettiva sopportazione di un danno non patrimoniale.

5) In definitiva, il ricorso è fondato e merita accoglimento solo in relazione alla domanda di annullamento e nei limiti esposti in motivazione.

La complessità della situazione di fatto sottesa alla vicenda esaminata consente di ravvisare giusti motivi per compensare tra le parti le spese della lite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando:

1) Accoglie in parte il ricorso, nei limiti di quanto esposto in motivazione e per l’effetto annulla la determinazione prot. 2534/UAC del Questore di Milano del 16.12.2008 con la quale è stata disposta la riattivazione del procedimento volto alla effettuazione delle trattenute sullo stipendio del Sovrintendente Capo O.L.;

2) Respinge la domanda risarcitoria contenuta nel ricorso;

3) Compensa tra le parti le spese della lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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