Cons. Stato Sez. V, Sent., 18-01-2011, n. 333 Rapporto di pubblico impiego;

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il sig. C., dipendente della ASL Napoli 5, ha impugnato dinanzi al Tar Campania la delibera dirigenziale di esclusione dalla graduatoria degli ammessi alla procedura concorsuale per la copertura di n.41 posti di operatore di computer categoria B, per mancanza dei requisiti richiesti dal bando (titolo di studio ed esperienza pregressa nel ruolo di riferimento).

Il giudice di primo grado, ritenuta la propria giurisdizione, ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 1 comma 136 della legge n. 311 del 2004, che, per l’annullamento d’ufficio (in autotutela) dei provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati – secondo il Tar comprensivi di quelli di lavoro – ha fissato un termine massimo di tre anni, ed ha annullato il provvedimento di esclusione perché tardivamente adottato, a circa cinque anni dalla approvazione della graduatoria e dalla stipulazione del contratto di lavoro individuale.

La ASL Napoli 5 impugna la sfavorevole sentenza per i seguenti motivi:

– avrebbe errato il giudice di primo grado nel ritenere la propria giurisdizione, considerando il provvedimento nell’ambito della procedura concorsuale, mentre esso era da inquadrare tra quelli incidenti direttamente sul rapporto di lavoro, con devoluzione della controversia al sindacato del giudice ordinario, essendo ormai esaurita la procedura concorsuale;

– avrebbe errato il primo giudice nel non considerare la preliminare eccezione di inammissibilità del ricorso per non essere stato notificato ad almeno un controinteressato, ai sensi dell’art. 21 L. n. 1034/1971;

– avrebbe errato il Tar nel considerare applicabile alla fattispecie l’art. 1, c. 136, della legge n. 311 del 2004 (legge finanziaria per il 2005), peraltro incorrendo nel vizio di ultrapetizione per non essere stata la norma invocata dalla parte ricorrente, in luogo della previsione del "termine ragionevole" dell’art. 21 – nonies, dal momento che tale disposizione era stata adottata esclusivamente per regolare i casi in cui l’atto di annullamento fosse finalizzato a conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, in relazione a rapporti contrattuali e convenzionali con privati. Nella specie il provvedimento sarebbe stato adottato con finalità di demansionamento, motivato dall’esclusione dalla graduatoria degli ammessi a procedura concorsuale;

– avrebbe errato il Tar nel non accertare il possesso dei requisiti in capo alla parte ricorrente, nella specie non posseduti.

Si è costituita la parte appellata, controdeducendo, anche con memoria, ai motivi di appello e riproponendo condizionatamente all’accoglimento dell’appello i motivi rimasti assorbiti in primo grado relativi a vizi procedurali ed al possesso dei requisiti richiesti.

All’udienza del 19 novembre 2010 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

1. La vicenda contenziosa trae origine dalla determinazione dirigenziale dell’Asl Napoli 5, con cui l’odierna parte appellata, unitamente ad altri dipendenti collocatisi utilmente nella graduatoria per selezioni interne per titoli ed esami per la copertura di posti vacanti nella dotazione organica della ASL (progressione verticale), a seguito di un’istruttoria disposta dall’Assessorato alla sanità della Regione Campania, è stata esclusa, a distanza di cinque anni dall’approvazione della graduatoria, per carenza dei requisiti indicati nel bando (relativi al possesso di diploma di istruzione secondaria di secondo grado e di anzianità di qualifica nel profilo corrispondente).

2. Va, preliminarmente, vagliata l’eccezione di difetto di giurisdizione non esaminata dal primo giudice.

3. L’eccezione non merita accoglimento.

L’art. 63, comma 4, d.lg. n. 165 del 2001, nel riservare alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti della pubblica amministrazione, si riferisce non solo a quelle strumentali alla costituzione per la prima volta del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso di personale dipendente a fascia od area superiore, essendo il termine "assunzione" correlato alla qualifica che il candidato intende conseguire e non solo all’ingresso iniziale nella pianta organica dell’amministrazione (Cassazione civile, sezioni unite, 7 febbraio 2007, n. 2694, Cons. St. Sez. V, 16.7.2007, n. 4030).

Rientra quindi nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un provvedimento di esclusione dalla partecipazione ad una selezione per il passaggio ad una fascia funzionale superiore (progressione verticale).

4. Anche il motivo incentrato sul difetto del contraddittorio in mancanza di notifica ad almeno uno dei controinteressati va disatteso.

Invero, in disparte l’avvenuta notifica del ricorso di primo grado ad un controinteressato non costituitosi e non chiamato nel giudizio di secondo grado, il Tar sul punto ha motivato mediante rinvio alle risultanze degli atti di causa, non contestate dall’appellante, che dimostrano l’avvenuto scorrimento della graduatoria con l’assunzione di tutti gli idonei. Conseguentemente mancano soggetti controinteressati – né l’appellante fornisce elementi contrari – nei confronti dei quali possa configurarsi un obbligo di integrazione del contraddittorio.

5. Deve poi confermarsi la sentenza del primo giudice in ordine alla tardività del provvedimento, secondo il primo giudice emesso in violazione del termine di tre anni prescritto dall’art. 1, c. 136, della legge n. 311 del 2004.

6. In primo luogo va detto che la sentenza non può considerarsi viziata per ultrapetizione, posto che il ricorrente ha dedotto in primo grado la tardività del provvedimento di annullamento, sicchè il Tar correttamente ha accolto il motivo, utilizzando parametri normativi in linea con la prospettazione e la qualificazione del vizio dedotto. Non è incorso pertanto nel vizio di ultrapetizione, che sussiste quando il giudice abbia attribuito alla parte una utilitas non richiesta o esaminato ed accolto il ricorso per un motivo non prospettato (Cons. St. Sez. Quinta, 24.9.2003, n. 5462, sez. VI, 12.12.2008, n. 6169).

7. In merito alla tardività dell’annullamento, il Collegio ritiene che le censure dell’appellante, volte a dimostrare l’inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 1, c. 136, L.n. 311/2004, non siano idonee a scalfire la censura di fondo accolta dal primo giudice, ossia il superamento di un termine ragionevole, nella specie individuato in quello forfetizzato dalla norma citata (ritenuta applicabile a fattispecie di pubblico impiego da Cons. St. 10.12.2009, n. 7752), in quanto l’atto annullato (ammissione del ricorrente al concorso per progressione verticale ed approvazione della relativa graduatoria) incide sul rapporto contrattuale di lavoro dei dipendenti beneficiari della progressione verticale, è preordinato ad ottenere i risparmi per l’amministrazione derivanti dalla restituzione dei dipendenti ai profili inferiori di provenienza e produce effetti perduranti nel tempo in concomitanza con la durata del rapporto di lavoro.

8. A riguardo, occorre sottolineare che anche l’art. 21 – nonies della l. n. 241/1990, che l’appellante giudica applicabile alla fattispecie, è ispirato ai medesimi principi di certezza e sicurezza delle situazioni giuridiche che sono alla base dell’art. 1, comma 136, l. 311 del 2004 (legge finanziaria 2005), ed ha codificato le condizioni per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte della P.A consistenti nell’illegittimità dell’atto; nella sussistenza di ragioni di interesse pubblico; nell’esercizio del potere entro un termine ragionevole; nella valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all’atto da rimuovere (Cons. Stato Sez. V, 07042010, n. 1946).

9. Quanto all’avvenuto decorso del termine, il Tar ha considerato spirato il termine triennale, calcolato con riferimento sia alla conclusione della procedura concorsuale che alla stipulazione del contratto individuale di lavoro. Ma ad identiche conclusioni si giunge anche ove si consideri (cfr. Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento della Funzione Pubblica 17.10.2005) ammissibile il superamento del triennio purchè, in conformità al criterio di ragionevolezza del termine recato dall’art. 21 – nonies, venga fornita una adeguata motivazione, nella specie del tutto carente.

10. L’appellante si è limitato a confutare l’applicazione dell’art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004 (legge finanziaria per il 2005), sostenendo la conformità del proprio atto alle disposizioni di cui al Capo IV bis della Legge n. 241/1990 ed alla previsione di cui all’art. 21 – nonies, in rapporto ai vari fattori in gioco, tra cui l’interesse pubblico ed attuale all’annullamento dell’atto ed il pregiudizio sofferto dal privato.

Tuttavia, la conformità dell’azione amministrativa ai canoni del procedimento amministrativo in ordine al termine da osservare per l’annullamento d’ufficio è del tutto smentita dalle circostanze.

Va affermato come nella presente fattispecie – diversa dai casi di annullamento di annullamento d’ufficio di inquadramento illegittimo (come l’inquadramento in qualifica superiore in violazione della regola dell’accesso mediante concorso), in relazione ai quali una consolidata giurisprudenza (di recente, Cons. St, Sez. V, 22.3.2010 n. 1672; 11.7.2008, n. 3470) considera in re ipsa l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo – rilevi la salvaguardia del consolidamento della posizione del privato che abbia confidato nella legittimità dell’atto rimosso, ricorrendo più circostanze in tal senso determinanti quali il conseguimento della fascia superiore a seguito di una selezione concorsuale, il previo accertamento da parte dell’amministrazione del possesso dei requisiti sia in fase di ammissione alla selezione – senza alcuna riserva – che in fase di approvazione della graduatoria, il mancato concorso dell’interessato ad un eventuale errore di valutazione quale una dichiarazione non veritiera, l’inconfigurabilità di una decadenza automatica dal beneficio e la necessità di un apposito provvedimento, l’inidoneità dell’atto a produrre effetti pregiudizievoli a danno di terzi che dall’annullamento trarrebbero vantaggio, l’assenza di atti volti ad affievolire l’affidamento, come una tempestiva comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti dell’interessato.

11. Non contenendo l’appello avverso la pronuncia di tardività alcun elemento atto a dimostrare che l’affidamento incolpevole protrattosi per cinque anni (e quindi ben oltre anche il termine dell’art. 1, c. 136,l. n. 311 del 3004 (legge finanziaria per il 2005) debba considerarsi recessivo rispetto all’ annullamento, che il Collegio considera invece tardivo e non supportato da adeguata motivazione, il gravame deve essere respinto.

12. Il carattere assorbente del vizio di legittimità accertato dal primo giudice, da confermarsi in secondo grado, comporta la reiezione anche del motivo con cui l’appellante lamenta il mancato accertamento negativo, nel merito, dei requisiti di ammissione alla procedura concorsuale.

13. L’integrale reiezione dell’appello esime il Collegio dall’esaminare altresì i motivi dichiarati assorbiti in primo grado e riproposti dalla parte appellata.

Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 22-12-2010) 08-02-2011, n. 4517 Ricorso

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Svolgimento del processo

1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Catanzaro, investito ex art. 309 c.p.p. dalla richiesta di riesame proposta da M. R., ha revocato l’ordinanza della Corte d’assise di Cosenza, che in data 14.6.2010 aveva applicato al ricorrente la custodia cautelare in carcere per il reato di cui tentato omicidio di Pietro Serpa, aggravato tra l’altro ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, commesso il (OMISSIS), per il quale il M. aveva il 17.5.2010 riportato condanna alla pena di quattordici anni di reclusione.

Il Tribunale del riesame osservava a ragione della sua decisione che la misura era stata disposta considerando il pericolo di recidiva e di fuga e la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, ma che gli elementi offerti dall’accusa non consentivano di intravedere l’attualità di alcuna delle esigenze cautelari, giacchè:

– i fatti, ancorchè assai gravi, erano del 1994 e i precedenti penali dell’imputato erano tutti, tranne l’ultimo, precedenti a quel reato, mentre l’ultimo risaliva comunque a quasi dieci anni prima;

– non risultava che il M. avesse commesso in epoca recente altri reati e non aveva procedimenti pendenti;

– la nota 1533/152 dei Carabinieri di Paola, valorizzata dal Pubblico ministero e dalla Corte d’assise, era assolutamente generica e non idonea a dimostrare il pericolo di fuga;

– non esistevano sintomi concreti di un pericolo di recidiva o di un pericolo di fuga e soprattutto il contegno positivo tenuto dal M. dopo la sua scarcerazione nel 2006 consentiva di ritenere all’attualità inesistenti detti pericoli.

2. Ha proposto ricorso il Pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore della Repubblica, in funzione distrettuale, presso il Tribunale di Catanzaro, chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata per violazione dell’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. b), e art. 275 c.p.p., comma 3, e vizi della motivazione.

Afferma che dimostravano l’esistenza del pericolo di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. b): la particolare gravità della pena inflitta; la negativa biografia dell’imputato, condannato "da ultimo" anche per violazione delle misure di prevenzione; la intrinseca gravità del fatto aggravato dalla appartenenza e dalla finalità mafiosa, detta appartenenza legittimando la prognosi di fuga e di latitanza favorita dal sodalizio; la documentazione sequestrata al M. dai Carabinieri di Paola nell’ottobre 1999 (due "copiate" del 1998 e un abbozzo di organigramma del 1999) e dai carabinieri di Livorno nel 2007 (un foglietto recante i nomi e i titoli di associati con date dell’agosto 1998 e del luglio 1999), che ne confermava l’inequivoco inserimento in contesti malavitosi e in particolare alla cosca dei Calvano. Gli elementi evidenziati non consentivano inoltre di ritenere certamente superata la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, mentre il Tribunale aveva effettuato una valutazione secondo gli ordinari parametri di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c), in aperto contrasto con la disposizione richiamata.
Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il ricorso appare inammissibile.

In relazione alla insussistenza di esigenze cautelari la motivazione offerta nel provvedimento impugnato, che fa leva sulla assoluta inattualità dei dati asseritamente sintomatici di un pericolo di fuga e di reiterazione dei reati, è esaustiva e plausibile e dimostra che sono state considerati tutti gli aspetti evidenziati dal ricorrente, rimarcandosene la riferibilità a fatti lontani nel tempo, superati, ad avviso dal Tribunale, dal comportamento sostanziale e processuale tenuto dal M. nell’ultimo decennio e in particolare, quanto ad assenza di pericolo di fuga, nel corso del processo nel periodo di tempo non modesto seguito alla sua scarcerazione.

E su tale specifico aspetto fattuale, che è stato correttamente considerato decisivo dal Tribunale, il ricorso non svolge argomenti, insistendo invece sull’inserimento del condannato in contesti "malavitosi" che – in base a quanto affermato dal Tribunale e alle circostanze temporali dallo stesso richiamate, che non vengono specificamente contraddette dal ricorso e neppure appaiono in alcun modo in contrasto con elementi e date riferiti dal ricorrente – non soltanto non appare affatto attuale, ma risulta estremamente lontano nel tempo e ragionevolmente ritenuto superato dai successivi ricordati comportamenti positivi.

2. Il ricorso si risolve dunque in confutazioni di fatto e sostanzialmente generiche (perchè reitera argomenti ritenuti infondati o non rilevanti senza rivolgersi specificamente alle considerazioni del provvedimento impugnato che sostengono tali conclusioni) e così nella richiesta, improponibile in sede di legittimità, di rivedere apprezzamenti corretti, non implausibili e immuni da vizi logici riservati al giudice del merito.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 11-04-2011, n. 8198 Imponibile Imposta di successione

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Svolgimento del processo

Con sentenza in data 2.4.2003 la commissione tributaria provinciale di Viterbo accolse l’impugnazione proposta da M.A. e Z.L. avverso un avviso di liquidazione d’imposta principale di successione in morte di Z.A..

Gli eredi, invero, avevano annoverato in dichiarazione, tra gli altri beni, anche gli importi dei depositi su conti correnti intestati al de cuius, per un totale di L. 109.741.402. E l’amministrazione finanziaria, sul rilievo che tali somme concorressero alla costituzione dell’attivo ereditario ai sensi del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 18 aveva liquidato l’imposta principale ai sensi dell’art. 9, comma 2, previo aumento del valore globale netto imponibile dell’asse in virtù della presunzione di esistenza di denaro, gioielli e mobilia.

La commissione tributaria provinciale ritenne in tal modo integrata una illegittima doppia imposizione. Avverso la sentenza l’amministrazione propose appello, insistendo nella tesi che i saldi di conto corrente dovessero essere considerati come crediti, e non come denaro.

L’appello fu respinto dalla commissione tributaria regionale del Lazio con la sentenza 13.1.2005. il giudice d’appello premise che la dichiarazione di successione aveva compreso, nel quadro b2, sotto la dicitura "altri beni", gli importi rinvenienti dai saldi dei conti correnti intestati al de cuius, così come previsto dal D.Lgs. cit., art. 9, comma 2 Sicchè -sostenne – tali "altri beni" non potevano essere considerati anche ai fini della maggiorazione presuntiva del 10%, essendo esclusa la presunzione dalla presenza di inventario analitico dei beni ( art. 769 c.p.c.), il Ministero dell’economia e finanze e l’agenzia delle entrate hanno proposto ricorso per cassazione, notificato in data 3.3.2006 a mezzo posta (con spedizione avvenuta il 1.3.2006) e affidato a un motivo. Gli intimati non hanno svolto difese.
Motivi della decisione

1. – Con unico motivo i ricorrenti censurano la sentenza per "violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, artt. 18 e 9 e del D.P.R. n. 637 del 1972, art. 8 nonchè dell’art. 769 c.p.c. e segg.".

Sostengono che il 10% di cui al ripetuto art. 9, calcolato sul valore globale netto dell’attivo ereditario, è relativo alla quantificazione in via presuntiva dì denaro, gioielli e mobilia;

mentre i saldi di conto corrente non sono ivi annoverabili, trattandosi di crediti e non di denaro. A sua volta l’inventario idoneo a vincere la presunzione di cui all’art. 9 è solo quello redatto dal notaio, non anche la risultanza della dichiarazione di successione.

2. – Il motivo è fondato, fermo restando che, peraltro, il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e finanze va dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione, i non essendo stato il Ministero parte del giudizio di merito. Risulta dalla sentenza esservi stata, difatti, negli anteriori gradi di merito, assunzione in via esclusiva, da parte dell’agenzia delle entrate, della gestione del contenzioso, con conseguente spettanza a essa soltanto dell’esercizio dei correlati poteri processuali in ordine all’impugnazione in sede di legittimità (per tutte, sez. un. 2006/3116).

3. – In tema di imposta di successione, del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9 premesso che l’attivo ereditario è costituito da tutti i beni e i diritti che formano oggetto della successione, prevede, al comma 2, che il denaro, i gioielli e la mobilia si presumono compresi nell’attivo ereditario per un importo pari al 10% del valore globale netto imponibile dell’asse, salvo che da inventario analitico, redatto a norma dell’art. 769 c.p.c., non ne risulti l’esistenza per un importo diverso.

L’inventario deve rispondere, per consolidata e ovvia affermazione, ai requisiti di validità formale e sostanziale fissati dal codice di rito ( art. 769 c.p.c.), atteso che, per l’applicazione del tributo, il presupposto indefettibile rimane l’appartenenza dei beni al patrimonio del defunto (cfr. Cass. 2007/5974; Cass. 2006/15532).

Con riguardo a ciò, si rinviene un primo errore dell’impugnata sentenza, nella misura in cui, invece, ha ritenuto integrato il presupposto idoneo a vincere la presunzione nel mero fatto dell’inserimento degli importi dei saldi attivi dei conti correnti in un apposito capo della dichiarazione di successione.

4. – A ogni modo, come da questa Corte già evidenziato (v. Cass. 2003/19161), la disposizione de qua, facendo riferimento a denaro, gioielli e mobilia di diretta pertinenza del defunto, non trova applicazione rispetto ai saldi attivi dei conti correnti bancari, nel concetto di "denaro" rientrando soltanto quello su cui il defunto, al momento della morte, eserciti il diritto di proprietà; mentre, rispetto al saldo attivo di un conto corrente bancario, rileva la titolarità, in capo al correntista, di un mero diritto di credito, in coerenza con le caratteristiche del contratto-base.

Tale contratto (di conto corrente bancario) è difatti quello su cui si innestano tutte le eventuali differenti operazioni del rapporto banca-cliente con partite di dare e di avere. La somma algebrica delle poste annotate in conto, consentendo di determinare in ogni momento il saldo (attivo o passivo) sulla base di un consolidato meccanismo contabile (peraltro in questo non divergente da quello caratteristico del conto corrente ordinario), costituisce l’ammontare del credito di cui il cliente può disporre in ogni momento. Come tale concorre alla costituzione dell’attivo ereditario in sè e per sè, ai sensi del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, comma 1, e art. 18 senza interferenza con la condizione di applicabilità della presunzione di ulteriore appartenenza di denaro, gioielli e mobilia di cui all’art. 9, comma 2.

In coerenza con quanto sopra va quindi enunciato il principio di diritto inteso a regolare la controversia, in ragione del quale l’impugnata sentenza è soggetta a cassazione.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, il giudizio può essere definito nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto del ricorso degli eredi Z. avverso l’avviso di liquidazione d’imposta.

Le spese processuali, nel rapporto tra gli intimati e l’Agenzia delle entrate, seguono la soccombenza, previa liquidazione secondo globalità di quelle relative ai gradi di merito.

Meritano invece integrale compensazione, per giusti motivi, quelle relative al rapporto processuale instaurato in esito al ricorso del Ministero.
P.Q.M.

LA CORTE dichiara l’inammissibilità del ricorso del Ministero dell’economia e delle finanze, con compensazione delle spese processuali relative al giudizio di legittimità; accoglie il ricorso dell’Agenzia delle entrate. Cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso avverso l’avviso di liquidazione. Condanna gli intimati alle spese processuali in favore della detta Agenzia, liquidandole, quanto ai gradi di merito, in complessivi Euro 2.573,00, di cui Euro 773,00 per diritti, e, quanto al giudizio di legittimità, in euro 1.200,00, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13-12-2010) 08-03-2011, n. 9024 Falsità ideologica in atti pubblici commessa da privato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Procuratore della Repubblica di Roma ricorre avverso la sentenza 24.11.09 del G.i.p. di Roma che ha dichiarato, ex art. 129 c.p.p., non doversi procedere, perchè il fatto non costituisce reato, nei confronti di P.D. in ordine al reato di cui all’art. 483 c.p., consistito nell’avere, nella sua qualità di architetto, attestato falsamente, nell’istanza presentata all’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Roma e provincia, di non aver mai riportato condanne, laddove invece, in data 31.1.2000, era stata emessa a suo carico condanna a mesi cinque e giorni dieci di reclusione per il reato di cui all’art. 485 c.p..

Deduce il p.m. ricorrente – nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza – violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, dal momento che l’imputato, nella dichiarazione resa di fronte al Consiglio dell’Ordine degli Architetti il 14.7.09, aveva espressamente affermato che "avendo riportato una condanna con la pena sospesa e non menzione, in buona fede ho ritenuto mio diritto non farne menzione come d’altra parte risulta dai descritti certificati".

Era quindi chiaramente emerso che il P. aveva agito volontariamente e nella piena consapevolezza dell’esistenza a suo carico di una sentenza di condanna ed era evidente l’errore in cui era incorso il g.i.p. che aveva confuso la coscienza e volontarietà della condotta di falso con l’ignoranza o l’erronea conoscenza della legge penale che, ai sensi dell’art. 5 c.p., non scrimina in quanto non scusabile e quindi evitabile.

Illogico e contraddittorio era stato pertanto sostenere da un lato che il P. era convinto della veridicità delle sue dichiarazioni dirette al Consiglio dell’Ordine degli Architetti e, per riflesso, che non intendeva provocare una modificazione della realtà nella inconsapevolezza di agire contro un dovere giuridico, e dall’altro affermare che la buona fede dell’imputato discendeva dalla convinzione di poter confidare sull’avvenuta estinzione del reato ai sensi dell’art. 445 c.p.p., dal momento che in tal caso era evidente come il P. fosse a conoscenza dell’esistenza di una precedente sentenza al punto da conoscerne gli effetti e i benefici giuridici.

Osserva la Corte che il ricorso è fondato.

Il g.i.p. ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di P.D., perchè il fatto non costituisce reato, avendo ritenuto l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 483 c.p. per buona fede inesigibile dell’imputato il quale, convinto di poter confidare sull’avvenuta estinzione del reato, ex art. 445 c.p.p., e sull’inesistenza di iscrizioni a suo carico – come evidenziata dal prodotto ulteriore certificato del casellario giudiziale -, con la dichiarazione resa non aveva inteso provocare una modificazione della realtà, essendo inconsapevole di agire contro un dovere giuridico, convinto invece della veridicità della sua affermazione.

Il dolo, generico, integratore del delitto di falsità ideologica di cui all’art. 483 c.p. è costituito dalla volontà cosciente di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero (Cass., sez. 2, 28 ottobre 2003, n. 47867), sicchè per andare esente da addebito penalmente rilevante, sotto il profilo soggettivo, sarebbe dovuto risultare che il P. – allorchè aveva affermato, nella sua domanda di iscrizione all’Albo degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia, di cui alla dichiarazione sostitutiva resa ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000, art. 446, di non aver riportato condanne penali – era convinto della veridicità di tale sua affermazione.

Orbene, essendo risultato dal certificato del casellario giudiziale acquisito dal Consiglio dell’Ordine che al P. era stata applicata, ai sensi degli artt. 444 e seg. c.p.p., dal Tribunale di Roma, con sentenza 31.1,2000 (poi divenuta irrevocabile), una pena di mesi cinque e giorni dieci di reclusione per il reato di cui all’art. 485 c.p., appare contraddittoria l’affermazione del g.i.p. secondo cui con tale dichiarazione l’imputato "non voleva provocare una modificazione della realtà, nè era consapevole di agire contro un dovere giuridico, essendo egli convinto della veridicità di tale affermazione", in quanto il certificato del casellario acquisito personalmente dall’imputato non riportava alcuna iscrizione e comunque il P. era convinto di poter confidare sull’avvenuta estinzione del reato.

E’ infatti proprio tale ultimo assunto ad apparire dimostrativo invece della consapevolezza da parte del P. dell’esistenza di una precedente condanna a suo carico e risulta quindi illogico inferire dall’affidamento di una incensuratezza solo formale e dal convincimento della comunque avvenuta estinzione del reato in ordine al quale era stata applicata la pena patteggiata, l’assenza dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 483 c.p. per una pretesa inconsapevolezza dell’imputato di agire contro un dovere giuridico, nella convinzione anzi di aver reso ai destinatari della domanda di iscrizione all’albo affermazioni corrispondenti al vero, laddove al P. era solo richiesto – nella dichiarazione sostitutiva resa D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 46 – di indicare se avesse o meno riportato condanne.

L’impugnata sentenza va di conseguenza annullata con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo giudizio.
P.Q.M.

La Corte, annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Roma, per nuovo giudizio.

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