Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-05-2011, n. 11263 Divisione

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 18 aprile 1997 D. S., D.M., D.F. ed D.E. convenivano D.C., D. D., De.Cl. e De.Mi., B. C. davanti al Tribunale di Roma per ottenere la divisione dei beni caduti nelle successioni di F.E. e di D. D..

Gli attori esponevano:

che in data 17 febbraio 1979 era deceduta ab intestato F. E., lasciando quali eredi legittimi il coniuge De.

D. ed i cinque figli S., E., F., M. e D.C.;

– che in data (OMISSIS) era deceduto anche De.

D., lasciando quale erede testamentaria la seconda moglie B.C. ed eredi legittimi i cinque figli per i beni non contemplati nel testamento;

che essi attori intendevano accettare le disposizioni testamentarie in favore di B.C., che era stata citata solo quale litisconsorte necessario;

– che D.C. aveva rinunciato all’eredità paterna, per cui gli erano subentrati per rappresentazione i figli D., C. e De.Mi..

I convenuti si costituivano e dichiaravano di non opporsi alla divisione, alla quale provvedeva, con sentenza in data 8 settembre 2001, il Tribunale di Roma.

Contro tale decisione proponevano appello D.C., D., Cl. e Mi..

Con sentenza in data 7 marzo 2006 la Corte di appello di Roma rigettava l’appello. i giudici di secondo grado ritenevano che infondatamente gli appellanti si dolevano del fatto che il Tribunale, in presenza di due successioni, aveva proceduto ad un’unica divisione, in base alla seguente motivazione:

Ed invero, il primo giudice ha ritenuto di procedere allo scioglimento della comunione ponendo a base della decisione un unico compendio, pur essendo in presenza di due distinte successioni, così argomentando : "1) l’eredità paterna ha assorbito pro-quota tutti i beni già relitti dalla signora F., sicchè allo stato tutti i condividenti risultano comproprietari degli stessi beni, ad eccezione del signor D.C. che, avendo rinunciato all’eredità del padre, non vanta diritti sugli appartamenti di (OMISSIS). Tuttavia, gli altri condividenti nulla hanno eccepito al riguardo e parte convenuta, del resto, si è difesa in giudizio considerando la titolarità di D.C. e dei suoi figli come una quota unica, al cui interno non è stata chiesta alcuna divisione; 2) procedere a due distinte divisioni comporterebbe necessariamente la vendita di tutti i beni e la ripartizione del ricavato per soddisfare le diverse e numerose quote di titolarità; tale soluzione, del resto non richiesta dalle parti (le quali tutte hanno concluso per l’attribuzione delle quote), sacrificherebbe eccessivamente il diritto di ciascun condividente di vedersi attribuita una porzione in natura dei beni comuni; 3) nella specie, stante le conclusioni assunte dalle parti, con particolare riferimento alle istanze di attribuzione cosi come formulate ed ai
Motivi della decisione

più avanti, si perverrebbe alle stesse modalità di divisione anche laddove si considerassero distintamente i due compendi.

La Corte di appello riteneva poi infondate le critiche all’operato del giudice di primo grado in ordine alle singole assegnazioni ed alla valutazione di alcuni appartamenti.

Contro tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione D.C. e D.D..

Resistono con controricorso D.E., D. S., D.M., D.F..

MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo i ricorrenti ribadiscono che, in mancanza di un accordo di tutti i condividenti, non si poteva provvedere ad un’unica divisione dei beni provenienti da due distinte successioni, in cui, tra l’altro, i beneficiari non coincidevano perfettamente.

La doglianza è fondata, in quanto la sentenza impugnata si è posta in contrasto con la pacifica giurisprudenza di questa S.C., citata nel ricorso, a fronte della quale a nulla valgono le considerazioni di opportunità invocate dal Tribunale e condivise dalla Corte di appello.

L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento degli altri.

In relazione al motivo accolto la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

la Corte accoglie il primo motivo del ricorso, con assorbimento degli altri; in relazione al motivo accolto cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. III ter, Sent., 24-03-2011, n. 2599

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Svolgimento del processo

Con il ricorso in epigrafe, la dr. ssa P., funzionario amministrativo in servizio presso il Ministero dei trasporti e della navigazione riferisce di avere presentato in data 22 dicembre 1995 istanza per potere usufruire di permessi straordinari retribuiti ai sensi dell’art. 3, d.P.R. 398/1988, finalizzata alla partecipazione nell’anno accademico 1995/1996 al corso di perfezionamento in scienze amministrative presso l’Università degli Studi di Roma "La Sapienza", e di avere ricevuto atto di concessione il successivo 12 febbraio 1996, recante le modalità di utilizzo delle 150 ore da destinarsi al perfezionamento.

Riferisce, ancora, di avere presentato, a supporto di tale richiesta, la seguente documentazione giustificativa: a) certificato della Segreteria del corso attestante la frequenza delle lezioni nel periodo gennaiometà giungo 1996; b) attestato della Segreteria del corso di perfezionamento in scienze amministrative tenutosi presso l’Università degli Studi di Roma "La Sapienza" circa lo svolgimento da pare della medesima di una approfondita relazione scritta dal titolo: "Disapplicazione degli atti normativi da parte del giudice amministrativo".

Con il ricorso in epigrafe impugna il provvedimento del 12 agosto 1999 con cui è stato disposto il collocamento in aspettativa per motivi personali senza assegni per i giorni 11,12, 13, 18, 19 e 20 giugno 1996.

Deduce, al riguardo, la violazione dell’art. 3, d.P.R. 398/1988 in relazione alla circolare n. 188 del 1995 ed in relazione al parere della P.dC.M. 7 aprile 1988, n. 3416/52; disparità di trattamento rispetto alla prassi amministrativa; violazione dei principi di correttezza, imparzialità e buon andamento della P.A.; violazione dell’ordine di servizio n. 10/1994 del Dirigente dell’ufficio Provinciale di Roma rispetto al giorno 11 giugno 1999.

Conclude la ricorrente, chiedendo, in accoglimento degli esposti mezzi di censura, l’annullamento del provvedimento n. 817/1999, con ogni effetto in ordine alla considerazione dei giorni ivi indicati come permessi di studio ai sensi dell’art. 3, d.P.R. 395/1988, e, comunque, nella parte in cui, limitatamente al giorno 11 giugno 1996 pone la ricorrente in aspettativa personale invece che come presente in ufficio, in permesso per un periodo di due ore.

L’Avvocatura Generale dello Stato, nel costituirsi in giudizio in difesa dell’intimato Ministero dei trasporti e della navigazione, ha eccepito l’infondatezza delle suesposte censure, chiedendo, pertanto, l’integrale rigetto del ricorso.

Alla pubblica udienza del 16 dicembre 2010 la causa è stata trattenuta a sentenza.
Motivi della decisione

Il ricorso non è meritevole di positivo apprezzamento.

Il d.P.R. 23 agosto 1988, n. 395 (recante "Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo intercompartimentale, di cui all’articolo 12 della legge quadro sul pubblico impiego 29 marzo 1983, n. 93, relativo al triennio 1988 – 1990"), all’articolo 3 contiene la disciplina del diritto allo studio. In particolare, al comma 1 è prevista la concessione di permessi straordinario retribuiti nella misura massima di centocinquanta ore annue individuali, per la frequenza (comma 2) di corsi finalizzati al conseguimento di titoli di studio in corsi universitari, postuniversitari, di scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute, o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali o attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento giuridico. Il comma 4 stabilisce poi che "il personale interessato ai corsi di cui ai commi 1, 2 e 3 ha diritto, salvo eccezionali ed inderogabili esigenze di servizio, a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non è obbligato a prestazioni di lavoro straordinario e durante i giorni festivi e di riposo settimanale"; il successivo comma 6 onera il personale interessato alle attività didattiche di cui al comma 2 alla presentazione alla propria amministrazione di "idonea certificazione in ordine alla iscrizione ed alla frequenza alle scuole ed ai corsi, nonché agli esami finali sostenuti", precisando che "in mancanza delle predette certificazioni, i permessi già utilizzati vengono considerati come aspettativa per motivi personali". Il comma 4 dell’articolo 17 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 settembre 1989 concernente il personale del comparto Ministeri ed altre categorie di cui all’articolo 2 del d.P.R. 5 marzo 1986, n. 68) stabilisce, sempre disciplinando il diritto allo studio, che "per la concessione dei permessi i dipendente interessati debbono presentare, prima dell’inizio dei corsi, il certificato di iscrizione e, al termine degli stessi, il certificato di frequenza e quello degli esami sostenuti".

L’esame di tali disposizioni consente di affermare che la disciplina al diritto allo studio del dipendente pubblico comprende, per una piena esplicazione dello stesso, tanto la concessione di permessi straordinari retribuiti nella misura massima di centocinquanta ore annue individuali (inizialmente limitati al tre per cento del totale delle unità in servizio all’inizio di ogni anno, giusta art. 3, co. 3, lett. a), d.P.R. 23 agosto 1988, n. 395, ma poi estesi anche oltre tale limite, ai sensi dell’art. 17, comma 1, d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44), quanto un trattamento di favore nell’espletamento della prestazione di servizio del personale cui è stato concesso di usufruire dei ricordati permessi straordinari retribuiti, attraverso il diritto ad espletare turni di lavoro che agevolino concretamente la frequenza dei corsi e la preparazione degli esami.

L’unico obbligo imposto nell’ambito di tale sistema al dipendente è quello di produrre la idonea documentazione giustificativa dell’iscrizione, della frequenza e degli esami sostenuti.

Dispone, infatti, il comma 6, dell’art. 3, d.P.R. n. 395/1988, che "Il personale interessato alle attività didattiche di cui al comma 2 è tenuto a presentare alla propria amministrazione idonea certificazione in ordine alla iscrizione ed alla frequenza alle scuole ed ai corsi, nonché agli esami finali sostenuti. In mancanza delle predette certificazioni, i permessi già utilizzati vengono considerati come aspettativa per motivi personali."

La normativa in esame, attraverso le ricordate modalità, costituisce un apprezzabile punto di equilibrio degli interessi coinvolti, tenuto conto dell’esigenza di rilievo pubblicistico al corretto funzionamento dei pubblici uffici e di quella, altrettanto meritevole di attenzione, dei singoli dipendenti di essere messi nelle concrete condizioni di accrescimento del proprio patrimonio culturale e professionale, che, peraltro, ed in modo indiretto, contribuisce anche alla valorizzazione per la struttura burocratica che si avvale della prestazione lavorativa dei dipendenti.

Ciò posto, ritiene il Collegio che il giusto contemperamento degli interessi in gioco realizzato dalla normativa in esame esclude che le ore di permesso retribuito possano non corrispondere ad effettive ore di frequenza scolastica: il diritto del datore di lavoro pubblico di esigere la prestazione lavorativa del proprio dipendente trova il suo limite solo nell’altrettanto rilevante esercizio del diritto allo studio e solo quando questo sia effettivo ed incompatibile con la contestuale prestazione lavorativa.

Peraltro, il tempo occorrente per la preparazione degli esami, dei compiti e di quant’altro connesso con la necessaria attività finalizzata al conseguimento di titoli di studio, ma diverso dalla frequenza dei relativi corsi, trova espressa garanzia nel diritto del dipendente ad ottenere turni di lavoro complessivamente più agevoli.

Con riferimento al caso di cui è controversia, la ricorrente non contesta che le lezioni hanno avuto conclusione in un momento antecedente rispetto alla fruizione delle ore a titolo di permesso straordinario retribuito, ma ritiene che tale beneficio conseguirebbe inevitabilmente alla considerazione che la preparazione della relazione scritta costituisca un completamento del corso di perfezionamento frequentato e che dunque debba rientrare a pieno titolo nell’ambito delle ore di permesso come concordate con il proprio dirigente.

E’, dunque, acclarato che la ricorrente non ha giustificato adeguatamente anche le ore usufruite per la redazione di elaborato scritto, peraltro nemmeno previsto quale esame conclusivo da rendersi obbligatoriamente, e dunque non rientrante nelle ipotesi espressamente contemplate dall’art. 3, d.P.R. del 1988, né ha dimostrato in modo idoneo che le stesse si sono rese necessarie al fine della obbligatoria presenza fisica in altro luogo in coincidenza con l’orario di servizio.

Nemmeno soccorre, in proposito, la circolare n. 188 del 1995, emanata dal Ministero resistente, e di cui è lamentata la violazione, atteso che la stessa si pone esattamente nel solco della portata normativa di cui si è dato conto.

Il Collegio non può, pertanto, condividere la censura sul punto dedotta, in quanto la concessione dei ricordati permessi straordinari retribuiti costituisce una misura di carattere eccezionale, che introduce un limite altrettanto eccezionale alla ordinaria sinallagmaticità del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti e, come tale, le relative disposizioni sono necessariamente di stretta interpretazione.

Deve essere respinta anche la seconda censura, con cui si deduce la disparità di trattamento, atteso che non è dimostrata la sussistenza di casi identici a quello della ricorrente, alla cui sola ricorrenza può invocarsi il dedotto vizio. In ogni caso, pure volendo ammetter che la prassi seguita dall’Amministrazione fosse nel senso di concedere permessi retribuiti al di fuori dei casi espressamente contemplati dalla norma, ugualmente non può invocarsi analogo trattamento, trattandosi di disparità di mero fatto, originata, eventualmente da una non corretta applicazione della normativa, e dunque non riferibile alla previsione di legge, ma alla sua eventuale applicazione patologica, all’evidenza irrilevante nella valutazione di legittimità dell’atto amministrativo.

Non ha pregio la censura di cui al terzo motivo, con cui si lamenta il ritardo nella adozione del provvedimento impugnato, adottato solo nel 1999, anche se riferito a prestazione lavorativa del 1996, essendo evidente, alla stregua della documentazione versata in atti dal resistente Ministero, che lo stesso costituisce l’atto conclusivo di un complesso iter procedimentale, all’interno del quale si è resa necessaria l’acquisizione di documentazione da parte della ricorrente, e di accertamenti presso l’Università degli Studi di Roma, e culminato con l’acquisizione di un parere della Funzione Pubblica, trasmesso con nota del 7.4.1998.

Infine, quanto all’ultimo e subordinato profilo di illegittimità, non può non rilevare il Collegio come questo prescinda dall’oggetto del contendere, atteso che la ricorrente non ha richiesto un permesso di lavoro per il giorno 11 giugno 1996, ma ha chiesto il permesso retribuito per motivi di studio, di talché, sotto tale profilo, nessun appunto può essere mosso al resistente Ministero.

Alla stregua delle superiori considerazione, il ricorso deve essere respinto.

Sussistono motivi, tenuto conto della materia oggetto di controversia e della vetustà della causa, per compensare integralmente le spese del giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Ter) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-07-2011, n. 15091 Contratto a termine

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 3.7.2006, dichiarava inammissibile l’appello principale della società e privo di efficacia quello incidentale della P., proposti avverso la sentenza del Tribunale di Camerino, che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto stipulato tra le parti il 28.10.1998 e la sussistenza tra le stesse di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dalla stessa data con le conseguenze di legge.

Rilevava la Corte territoriale che la sentenza impugnata era stata notificata alla società rappresentata dall’avvocato Conti presso l’Ufficio Postale di Camerino in data 18-2-2004 e che, rispetto a tale notifica: ritenuta ritualmente eseguita; il gravame era stato notificato oltre il termine breve per l’impugnazione.

Propone ricorso per cassazione la società deducendo, con unico motivo, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3), con particolare riferimento agli artt. 285, 170, 326, 327 e 434 c.p.c., ed all’art. disp. gen., e la carenza di motivazione.

Rileva come la sentenza di primo grado sia stata notificata in forma esecutiva ed effettuata personalmente alla parte, anzichè al procuratore costituito, e come tale non sia idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, anche quando sia notificata alla parte presso il procuratore domiciliatario, perchè la finalità di tale tipo di notifica è quella di porre in essere gli atti propedeutici all’esecuzione. Ribadisce che la notifica alla parte personalmente, ancorchè nel domicilio eletto, non è idonea a far decorrere il termine breve, osservando che le notifiche si effettuano al" e non "presso" il procuratore costituito. Rileva, infine, che la notifica è stata anche effettuata non allo studio dei procuratori costituiti, bensì presso l’Ufficio Postale di Camerino, luogo di elezione di domicilio in primo grado, e non presso il domicilio del procuratore costituito, ossia presso lo studio di quest’ultimo.

Resiste con controricorso la P., rilevando che nessuna incidenza può essere attribuita alla circostanza dell’aggiunta della formula esecutiva e che la mancata indicazione del legale rappresentante della società Poste italiane si spiega proprio per il fatto che la notifica aveva come destinatario il procuratore costituito. La società ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Il ricorso della società deve essere respinto atteso che, come affermato da orientamento consolidato di questa Corte, la notifica della sentenza in forma esecutiva presso il procuratore costituito è equivalente a quella eseguita presso il procuratore stesso ed è pertanto idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione sia per il notificato che per il notificante, stante la comunanza del termine e a prescindere dalla posizione rivestita con riferimento all’esito del precedente giudizio (cfr., tra le altre, Cass. 2 aprile 2009 n. 8071). Arche il rilievo relativo alla irritualità della notificazione della sentenza di primo grado presso l’ufficio postale ove era stato eletto domicilio, anzichè al domicilio del procuratore costituito, si rivela destituito di fondamento giuridico, considerato che la notifica della sentenza è avvenuta in conformità alle norme che ne regolano l’effettuazione, consentendone l’idoneità a far decorrere il termine breve di impugnazione.

Ai fini della decorrenza del termine breve d’impugnazione, invero, la notifica della sentenza alla parte costituitasi mediante procuratore deve essere effettuata – a norma del combinato disposto di cui agli artt. 170, 285 e 326 cod. proc. civ. e art. 58 disp att. c.p.c., a tale procuratore e nel domicilio del medesimo, per cui, ove l’elezione del domicilio da parte dei procuratori costituiti sia avvenuta, come nella specie, presso l’ufficio postale, anzichè presso lo studio dei predetti, la notifica della sentenza eseguita presso tale ufficio, è del tutto idonea a far decorrere il termine breve suddetto.

Al rigetto dei ricorso consegue, in virtù della regola della soccombenza, la condanna della società ricorrente alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 03-05-2011, n. 3815

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Svolgimento del processo

Il ricorrente, cittadino egiziano, in data 6 novembre 2007 ha inoltrato l’istanza diretta ad ottenere la cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9 comma 1 lett. f) della L. 91/92.

Con il decreto impugnato il Ministero dell’Interno ha respinto la sua istanza, ritenendo insussistente il presupposto della residenza legale nel territorio della Repubblica da almeno 10 anni continuativi; il ricorrente, infatti, è stato cancellato per irreperibilità dall’anagrafe dei residenti nel periodo 12 dicembre 2000 – 13 novembre 2002 secondo quanto risulta dal certificato storico anagrafico rilasciato dal Comune di Roma.

Ai fini dell’annullamento deduce i seguenti motivi di diritto:

1. Mancata motivazione dell’atto prefettizio.

Lamenta il ricorrente il difetto di motivazione del provvedimento impugnato in quanto la Prefettura non avrebbe indicato con precisione l’atto del Comune di Roma dal quale si evince la sua cancellazione anagrafica, essendo egli rimasto sempre a Roma.

Non sarebbe chiaro come sarebbe stata accertata la sua irreperibilità che avrebbe comportato la cancellazione dall’anagrafe dei residenti.

2. Errata applicazione dell’art. 11, comma 1, lett. c) del D.P.R. 30/5/89 n. 223.

Il Comune di Roma non avrebbe rispettato il procedimento di cancellazione dall’anagrafe.

Egli avrebbe comunque maturato il requisito della residenza decennale pur non tenendo conto del periodo di irreperibilità.

La sua domanda di concessione della cittadinanza sarebbe stata respinta soltanto per la dichiarazione di irreperibilità resa dal Comune di Roma senza tener conto della sua condotta irreprensibile e del suo inserimento sociale in Italia.

Insiste quindi il ricorrente per l’accoglimento del ricorso.

L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.

All’udienza pubblica del 24 marzo 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Come meglio dedotto in narrativa, il ricorrente lamenta l’illegittimità del decreto impugnato, con il quale è stata dichiarata inammissibile la sua istanza di concessione della cittadinanza italiana in quanto "…l’interessato non risulta essere stato iscritto all’anagrafe dei residenti per almeno dieci anni consecutivi nel territorio della Repubblica, diversamente da quanto dichiarato con l’autocertificazione nell’istanza di concessione della cittadinanza", tenuto conto del certificato storico anagrafico del Comune di Roma "…dal quale si evince una accertata irreperibilità con cancellazione del 12 dicembre 2002 e successiva nuova iscrizione del 13 novembre 2002".

Sostiene, infatti, il ricorrente di non essersi mai allontanato da Roma come dimostrerebbe l’estratto contributivo INPS depositato in giudizio.

La cancellazione anagrafica quindi sarebbe stata erroneamente effettuata.

Prima di passare ad esaminare le singole censure, ritiene il Collegio di dover richiamare la normativa che disciplina la materia.

L’art. 9, comma 1, della legge n. 91 del 1992, prescrive che la cittadinanza italiana può essere concessa, tra gli altri, "allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica" (lett. f).

La condizione di "residenza legale", che la norma in esame impone, acquista concretezza attraverso il disposto dell’art. 1, comma 2, lett. a), del D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572, ai sensi del quale risulta legalmente residente nel territorio dello Stato "chi vi risiede avendo soddisfatto le condizioni e gli adempimenti previsti dalle norme……….. in materia di iscrizione anagrafica".

Ciò premesso, appare evidente che, per configurare il presupposto della "residenza legale ultradecennale" richiesto dall’art. 9 della legge, non è sufficiente il mantenimento di un’interrotta situazione fattuale di residenza, ma è necessario che la stessa sia stata accertata in conformità alla disciplina interna in materia di anagrafe (cfr., tra le altre, T.A.R. Lazio Sez. I Ter 30/4/2010 n. 8967; T.A.R. Lazio Sez. II Quater 4/2/2011 n. 1061; T.A.R Veneto, Sez. III, n. 1544/2008; T.A.R Piemonte, Sez. I, 1583 del 2007).

In altri termini, la residenza legale non può prescindere dall’iscrizione anagrafica, la quale rappresenta un requisito richiesto dalla legge, alla cui assenza non è possibile ovviare mediante la produzione di dati ed elementi atti a comprovare la presenza sul territorio.

Da ciò consegue che a carico dello straniero che intende ottenere la concessione della cittadinanza italiana va riscontrato un onere di verifica del possesso attuale ed ininterrotto del requisito della residenza legale e, dunque, dell’iscrizione anagrafica.

Svolte queste premesse, può passarsi alla disamina delle singole doglianze.

Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta – in particolare – il difetto di motivazione del provvedimento in quanto l’Amministrazione non avrebbe allegato l’atto del Comune di Roma dal quale si evincerebbe la cancellazione anagrafica.

Con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 11 comma 1 lett. c) del D.P.R. 30/5/89 n. 223

in quanto – a suo dire – il Comune di Roma non avrebbe rispettato il procedimento previsto dalla legge per effettuare la cancellazione anagrafica.

Deduce, poi, di aver comunque maturato la residenza decennale, anche se non ininterrottamente.

Rileva, infine, che l’Amministrazione non avrebbe tenuto conto del suo grado di integrazione nazionale.

Tali censure non sono meritevoli di condivisione.

Occorre preventivamente rilevare che il certificato storico anagrafico del Comune di Roma dal quale emerge la cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente è stato prodotto in giudizio dall’Avvocatura erariale e messo a disposizione del ricorrente consentendogli di comprendere quando, e a seguito di quale procedimento, è stata effettuata la cancellazione.

Nella comunicazione ex art. 10 bis della L. 241/90 era poi chiaramente indicato il periodo di cancellazione per irreperibilità dall’anagrafe dei residenti.

Non sussiste dunque la carenza di motivazione dedotta con il primo motivo atteso che nel caso di motivazione "per relationem" il concetto di disponibilità di cui all’art. 3 l. n. 241 del 1990 non comporta che l’atto amministrativo richiamato "per relationem" debba essere unito imprescindibilmente al documento, bensì che il documento sia reso disponibile a norma della stessa legge, vale a dire che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi (T.A.R. Lombardia Sez. III Milano 26/1/04 n. 86).

Nel caso di specie, non soltanto il certificato era facilmente accessibile a semplice richiesta all’Ufficio Anagrafe del Comune di Roma, ma è stato anche depositato in giudizio.

La doglianza deve essere pertanto respinta.

Con il secondo motivo lamenta il ricorrente l’erroneità del procedimento seguito dal Comune di Roma per effettuare la cancellazione anagrafica.

La censura non è suffragata da alcun elemento di prova, e deve essere pertanto respinta.

Altrettanto infondata è la tesi del ricorrente secondo cui sussisterebbe comunque il possesso decennale della residenza anagrafica anche non considerando il periodo di cancellazione, in quanto il periodo di residenza deve essere ininterrotto.

Resta da esaminare l’ultima censura nella quale il ricorrente lamenta la mancata valutazione del suo grado di inserimento sociale.

La doglianza non può trovare accoglimento.

Una volta accertata la non continuità delle iscrizioni anagrafiche il decreto di inammissibilità — vale a dire di non sussistenza dei presupposti preliminari di ammissibilità previsti dalla legge per l’effettuazione dell’istruttoria vera e propria- è atto dovuto e vincolato e, come tale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto.

In definitiva, il provvedimento di diniego impugnato – fondato sull’irreperibilità anagrafica del ricorrente durante parte del periodo decennale contemplato dall’art. 9 sopra citato – appare correttamente adottato.

Per le ragioni illustrate, il ricorso va respinto.

Sussistono comunque giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di giudizio tra le parti.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,

lo respinge.

Spese compensate

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.