Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-04-2012, n. 6549 Responsabilità disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La contribuente in epigrafe indicata impugnava in sede giurisdizionale il diniego, opposto dall’Ufficio,in relazione all’istanza di rimborso delle somme versate per IRPEF in dipendenza dell’indennità di esproprio ricevuta nell’anno 2002.

La CTP di Palermo accoglieva il ricorso e tale decisione veniva confermata in appello dalla CTR. Quest’ultima, in particolare, riteneva che le aree espropriate, in relazione alle quali era stata corrisposta l’indennità, non ricadessero nelle zone omogenee A, B, C e D, previste dalla L. n. 413 del 1991, art. 11, essendo bensì incluse tra quelle ricadenti in aree destinate a verde agricolo, ragion per cui non sussistevano i presupposti per il particolare prelievo fiscale.

L’Agenzia Entrate, giusto ricorso notificato il 27/29 gennaio 2010, ha chiesto la cassazione della decisione di appello, sulla base di tre mezzi.

L’intimata resiste, e, con controricorso notificato il 05-10 marzo 2010, ha chiesto il rigetto dell’impugnazione, e con contestuale ricorso incidentale condizionato, affidato a due mezzi, ha chiesto l’annullamento della sentenza della CTR.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., per avere ritenuto ed affermato che l’onere di provare la sussistenza dei presupposti impositivi gravasse sull’Agenzia Entrate.

Con il secondo mezzo la decisione di appello viene censurata per violazione e falsa applicazione della L. n. 413 del 1991, art. 9, comma 5, per avere ritenuto ed affermato che il presupposto impositivo fosse rappresentato dall’inclusione delle aree espropriate nelle zone omogenee A, B, C e D del PRG e, quindi, che tale presupposto risultasse insussistente per le aree a diversa destinazione, quale quella di che trattasi, destinata a verde agricolo.

Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 cod. civ., ed insufficiente ed illogica motivazione su fatti controversi e decisivi, per avere ritenuto ed affermato che la prova della destinazione urbanistica dell’area espropriata, dovesse, necessariamente, essere fornita mediante la produzione di certificazione rilasciata dal Comune.

Le questioni poste dai trascritti mezzi vanno risolte in coerenza a principi desumibili da condiviso orientamento giurisprudenziale.

Costituisce, in vero, principio consolidato e condiviso, quello secondo cui "In tema di contenzioso tributario, ove la controversia abbia ad oggetto l’impugnazione del rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, quest’ultimo riveste la qualità di attore in senso non solo formale – come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo – ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o – dove in concreto ne ricorrono i presupposti – l’applicazione del principio di non contestazione" (Cass. n.29613/2011, n.22567/2004).

E’ stato, altresì, affermato che "In tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 11, comma 5, allo scopo di escludere l’imponibilità ai fini IRPEF delle plusvalenze da redditi diversi previsto dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, comma 1, lett. b), non rileva che l’area espropriata per realizzarvi un’opera pubblica si trovasse all’interno della zona destinata a verde pubblico attrezzato (VAT), poichè tale previsione generale non è di per sè sufficiente ad escludere la sua inerenza alle zone omogenee considerate dall’art. 11, comma 5, dovendosi avere riguardo alla destinazione effettiva dell’area" (Cass. n. 16231/2004, n. 15845/2004).

La decisione impugnata risulta avere fatto malgoverno dei trascritti principi, per avere argomentato nel senso che l’onere probatorio dell’infondatezza della pretesa fiscale, pur vertendosi in tema di domanda di rimborso, gravasse sull’Agenzia Entrate, – che non lo aveva assolto,- ed altresì per avere valorizzato nell’iter decisionale la circostanza che le aree di che trattasi, nel PRG avevano destinazione a verde agricolo, senza considerare il dato emblematico della concreta destinazione, cioè che le stesse erano state espropriate per la realizzazione di un parcheggio, cioè di "un’opera pubblica di infrastruttura urbana riferentesi ad interventi nelle aree interessate dai campionati mondiali", nonchè per avere argomentato nel senso che l’onere probatorio dell’infondatezza della domanda di rimborso gravasse sull’Agenzia Entrate, che non lo aveva assolto.

La fondatezza del ricorso principale, impone l’esame dei due motivi dell’impugnazione incidentale condizionata.

Il primo mezzo, censura la decisione di appello per omessa e/o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo, deducendosi che l’Agenzia, nel corso del giudizio, a sostegno dell’opposto diniego di rimborso, aveva addotto motivi diversi, rispetto a quelli esternati per supportare il provvedimento di diniego del rimborso.

Si sostiene che mentre l’Ufficio aveva motivato l’originario diniego, argomentando che l’opera pubblica "realizzata (parcheggio) rientrasse tra gli interventi di edilizia residenziale pubblica o economica e popolare", nel corso del giudizio di appello, l’Agenzia aveva diversamente motivato le ragioni del diniego basandola "sulla presunta collocazione dell’area interessata in una delle zone omogenee di tipo A, B, C o D di cui al D.M. 5 aprile 1968.

Con il secondo mezzo, la ricorrente incidentale, prospetta violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 e art. 345 c.p.c., evidenziando la violazione delle indicate norme, per avere la CTR dato ingresso, nel giudizio di appello, a domande ed eccezioni nuove e non consentite.

I due mezzi, che data la connessione possono trattarsi congiuntamente, sono infondati.

In vero, nel processo tributario, la preclusione della possibilità di sollevare eccezioni nuove in appello, posta dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, non comporta l’improponibilità dell’illustrazione con nuovi argomenti di eccezioni già formulate, laddove non venga violato il divieto di ampliamento in appello del thema decidendum, al rispetto del quale è funzionale il limite imposto dalla legge, nè della nuova prospettazione di cosiddette eccezioni improprie, o mere difese, in quanto dirette a sollecitare il rilievo d’ufficio da parte del giudice, dell’inesistenza di fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, della cui prova e1 onerata l’altra parte (Cass. 15646/2004).

E’ stato, pure, precisato (Cass. n.18519/2005) che il divieto di nuove eccezioni in appello, introdotto per il giudizio contenzioso ordinario con la L. 26 novembre 1990, n. 353, tramite la riforma dell’art. 345 cod. proc. civ., e successivamente esteso al giudizio tributario dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprie, v. rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo. Detto divieto non può mai riguardare, pertanto, i fatti e le argomentazioni posti dalle parti medesime a fondamento della domanda, che costituiscono oggetto di accertamento, di esame e di valutazione da parte del giudice di secondo grado, il quale, per effetto dell’impugnazione, deve a sua volta pronunciarsi sulla domanda accolta dal primo giudice, riesaminando perciò i fatti, le allegazioni probatorie e le argomentazioni giuridiche che rilevino per la decisione.

La deduzione relativa alla diversa zonizzazione dell’area, in ipotesi, sostanziava una mera argomentazione difensiva relativa ad una circostanza che integrava elemento costitutivo della domanda di rimborso, facendo gravare sulla contribuente l’onere di provare la sussistenza dei presupposti per il relativo ottenimento, essendo già parte del thema decidendum.

Peraltro, le censure risultano, altresì, prive di concreto rilievo ai fini decisionali, stante il richiamato principio secondo cui agli effetti della previsione normativa in esame, devesi avere riguardo alla destinazione effettiva dell’area", che nel caso, pacificamente, è stata destinata a parcheggio.

Conclusivamente, va accolto il ricorso principale e rigettato l’incidentale.

Cassata l’impugnata decisione, in relazione alle censure accolte, la causa va rinviata ad altra sezione della CTR della Sicilia, la quale procederà al riesame e, adeguandosi ai richiamati principi, deciderà nel merito ed anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, offrendo congrua motivazione.

P.Q.M.

accoglie il ricorso principale, cassa la decisione impugnata in relazione alle doglianze accolte e rinvia ad altra sezione della CTR della Sicilia; rigetta l’impugnazione incidentale.

Così deciso in Roma, il 29 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 25-05-2012, n. 8315 Controversie tra l’appaltatore e l’amministrazione appaltante

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Svolgimento del processo

1.- Il Consorzio Cooperative Costruzioni conveniva in giudizio la s.p.a. Aeroporti di Roma, committente dell’appalto dei lavori di ampliamento e ristrutturazione dell’aerostazione internazionale dell’aeroporto intercontinentale di (OMISSIS) e ampliamento del corpo centrale, esponendo di avere iscritto nel registro di contabilità numerose riserve, di avere eseguito lavori non ancora pagati (alcuni contabilizzati in s.a.l.) e di avere ultimato i lavori il 30 novembre 1998. Chiedeva la condanna della convenuta al pagamento di vari importi per numerose voci, tra le quali quelle relative al premio di accelerazione (Euro 1.373.775,35), al costo di ripristino dei luoghi in seguito a un incendio (Euro 88.837,61) e alla restituzione della penale applicata per il ritardo nel completamento dei lavori (Euro 55.688,58).

2.- Il Tribunale di Roma accoglieva le domande relative alle suddette voci, ma parzialmente quella relativa al premio di accelerazione (nella misura di Euro 713.415,03), e rigettava la domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale dalla società convenuta.

Per quanto ancora rileva, le parti avevano previsto un premio di accelerazione in favore del Consorzio in un accordo del 22 agosto 1997 nel quale avevano stabilito che, qualora l’ultimazione delle opere avesse avuto luogo entro il 31 maggio 1998 (cioè prima del termine pattuito del 30 novembre 1998), il Consorzio avrebbe avuto diritto al premio in misura integrale; nel caso di ritardo inferiore a novanta giorni, il premio sarebbe stato decurtato in misura di L. 11.803279 al giorno, mentre in caso di ritardo superiore a novanta giorni il Consorzio non avrebbe avuto diritto al premio. Avendo ritenuto giustificato il prolungamento del termine del 31 maggio 1998 sino al 24 settembre 1998, cioè per 116 giorni di cui 43 come recupero del tempo improduttivo causato da un incendio sviluppatosi nell’area di cantiere, e non essendo trascorsi 90 giorni tra la suddetta data e quella del 19 dicembre 1998 di effettiva conclusione dei lavori, il tribunale aveva potuto riconoscere il premio finale di accelerazione.

3.- La Corte di appello di Roma, con sentenza del 5 novembre 2009, accoglieva l’appello della società Aeroporti di Roma per le suddette tre voci ancora controverse, riduceva a Euro 129.114,22 l’importo complessivamente dovuto all’appaltatrice e rigettava l’appello incidentale del Consorzio; compensava per la metà le spese dei due gradi di giudizio e le poneva per il resto a carico della società Aeroporti.

La corte territoriale riteneva che non fosse giustificato il prolungamento del termine del 31 maggio 1998 per i 43 giorni relativi all’incendio, il quale infatti non poteva essere addebitato alla committente, con conseguente esclusione del diritto al premio di accelerazione finale e rigetto della domanda relativa al costo di ripristino dei luoghi in seguito al medesimo incendio; la corte riteneva inoltre che il tribunale avesse erroneamente condannato la committente a restituire le trattenute a titolo di penale per il ritardo nel completamento dei lavori (in quanto non ancora conclusi alla data del 30 novembre 1998).

4.- Il Consorzio Cooperative Costruzioni ricorre per cassazione. La società Aeroporti di Roma resiste con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

1.- Va preliminarmente accertata la tempestività del controricorso della società Aeroporti. Il ricorso è stato notificato il 17 dicembre 2010; il termine per la notifica del controricorso della società Aeroporti scadeva il 26 gennaio 2011, ma la notifica effettuata in pari data nel domicilio eletto nella procura alle liti posta a margine del ricorso dava esito negativo (dalla relata dell’ufficiale giudiziario risulta che il difensore "si è trasferito… altrove come da verifiche e informazioni sul posto");

il controricorso è stato regolarmente notificato il 2 febbraio 1011 presso il nuovo domicilio del difensore del Consorzio ricorrente (in (OMISSIS)).

In applicazione del principio secondo cui il procedimento notificatorio si perfeziona, per quanto riguarda il richiedente, alla data di affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario (non potendo ricadere sul notificante le conseguenze di un ritardo a lui non imputabile: v. Corte Cost. n. 477/2002), il controricorso per cassazione deve ritenersi tempestivo, essendo stato consegnato all’ufficiale giudiziario entro il termine di cui all’art. 370 c.p.c., comma 1, sebbene l’esito positivo della notifica sia avvenuto successivamente per fatto non ascrivibile al controricorrente, a causa dell’erroneità dell’indirizzo del destinatario dovuta all’errata indicazione contenuta nel ricorso per cassazione (v. Cass. n. 6316/2005).

2.- Con un unico articolato motivo la ricorrente deduce violazione di legge con riguardo ai principi che regolano la ripartizione dell’onere della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c. ( art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè carenza, illogicità e contraddittorieta della motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5).

Secondo la prospettazione della ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe erronea per avere posto a suo carico l’onere probatorio in ordine alla causa dell’incendio, mentre avrebbe dovuto essere la committente a dimostrare la causa estintiva dell’obbligazione concernente il premio di accelerazione finale; la sentenza avrebbe erroneamente tratto la prova della imputabilità dell’incendio alla medesima appaltatrice da un verbale della Asl di Roma (OMISSIS) del 16 e 17 febbraio 1998, il quale invece si limitava a individuare le prescrizioni di sicurezza del cantiere dopo il sinistro e, al contrario, dava atto della presenza di diverse imprese nel cantiere, circostanza questa correttamente valorizzata dal tribunale al fine di escludere la responsabilità dell’appaltatrice; inoltre, la sentenza impugnata avrebbe impropriamente conferito valore probatorio in ordine alla causa dell’incendio alla contestazione proveniente dalla stessa committente in una nota del direttore dei lavori del 6 marzo 1998; i lavori erano stati effettivamente ultimati il 30 novembre 1998, sicchè essa avrebbe avuto diritto al premio, anche senza considerare il tempo dell’incendio.

2.1.- Preliminarmente si osserva che la sentenza impugnata ha escluso che il termine del 31 maggio 1998 che era stato pattuito per la conclusione dei lavori e che, se rispettato, avrebbe dato diritto al premio finale di accelerazione per intero, potesse essere prolungato (oltre che di 73 giorni per un evento che qui non rileva) anche di 43 giorni a causa di un incendio (sulla copertura dell’edificio) che aveva provocato lo slittamento della durata dei lavori. La corte di appello ha infatti ritenuto che la responsabilità dell’incendio, e dei danni conseguenti, fosse ascrivibile al Consorzio che ne aveva la custodia, a tal fine valorizzando due verbali degli ispettori della Asl Roma D che contestarono la "inosservanze alle norme di prevenzione sia all’incaricato dell’impresa (la srl E.I.P.) che materialmente stava ponendo la guaina bituminosa sul piano di copertura oggetto delle lavorazioni del Consorzio (da cui parti la scintilla per il divampare dell’incendio) sia al responsabile di cantiere del Consorzio medesimo: da ciò risulta confermato quanto contestato dal direttore dei lavori al Consorzio medesimo, che cioè l’incendio era avvenuto per disattenzione umana – e non già per caso fortuito – e che di esso doveva rispondere il Consorzio che aveva subappaltato (alla srl E.I.P.) i lavori di posa in opera". 2.2.- Il primo profilo in cui il motivo è articolato concerne la violazione dei principi che regolano l’onere della prova nel processo. Esso è inammissibile alla luce del principio secondo cui la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata secondo le regole dettate da quella norma, ovvero quando abbia attribuito rilevanza probatoria a mezzi istruttori in astratto inidonei, non anche quando, a seguito di una valutazione (asseritamente) incongrua delle acquisizioni istruttorie, il giudice di merito abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poichè in questo caso vi sarà soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, in ipotesi sindacabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 19064/2006, n. 2707/2004, n. 2155/2001, n. 11949/1993). Il criterio di decisione posto a base della sentenza impugnata, infatti, non è stato fondato su una meccanica applicazione (asseritamente erronea) del principio dell’onere della prova, il quale, comunque, neppure implica che il fondamento del diritto vantato debba essere dimostrato unicamente dalle prove prodotte dal soggetto gravato dal relativo onere, potendo invece desumersi dagli elementi probatori comunque acquisiti al processo e da chiunque forniti (Cass. n. 17336/2003, n. 2941/1990).

I giudici di appello hanno desunto il convincimento, in ordine alla non addebitabilità dell’incendio alla committente, non solo da prove documentali acquisite nel processo (in particolare, dai verbali ispettivi della Asl), ma anche da valutazioni presuntive, argomentate e non specificamente censurate, circa l’addebitabilità all’appaltatore delle conseguenze dannose di un evento accaduto nell’area di cantiere di cui esso aveva l’obbligo di custodia, a prescindere dal ruolo svolto dal personale di altre imprese eventualmente presenti nel cantiere (circostanza quest’ultima ipotizzata dal tribunale). Inoltre, la decisione della corte territoriale di escludere il prolungamento del termine fissato al 31 maggio 1998 per i 43 giorni di stallo dei lavori a causa dell’incendio, è basata, oltre che in ragione della imputabilità del suddetto evento, anche per non essere "neppure dimostrato che l’interdizione dai lavori per effetto dell’incendio avesse interessato tutto il cantiere" e che questo avesse "determinato un ostacolo per l’esecuzione dei restanti lavori oggetto dell’appalto".

E’ quindi inammissibile la censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, avente ad oggetto la pretesa inversione del criterio di ripartizione dell’onere della prova, quanto alla imputabilità dell’incendio (all’appaltatore), la cui allegazione da parte della committente ha trovato piena conferma nella valutazione delle risultanze processuali da parte dei giudici di merito.

2.3.- La denuncia di omessa motivazione è inammissibile, in quanto formulata congiuntamente con la denuncia di motivazione insufficiente o contraddittoria, stante l’insanabile contrasto logico sussistente tra il primo di tali vizi e gli altri, in quanto, come desumibile dalla formulazione alternativa e non congiuntiva delle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5,, una motivazione mancante non può essere insufficiente o contraddittoria, in quanto l’insufficienza e la contraddittorietà presuppongono comunque una motivazione di cui la parte si duole (così Cass. n. 7575/2011, n. 13954/07, n. 1317/2004).

2.3.1.- La censura è inammissibile anche sotto il profilo della motivazione insufficiente o contraddittoria, limitandosi la ricorrente a prospettare, in sostanza, che gli elementi di fatto e di diritto valutati erano suscettibili di una diversa interpretazione volta esclusivamente ad acriticamente contrapporre alle soluzioni offerte dalla sentenza impugnata quelle conformi alle proprie deduzioni, anche desunte dalla sentenza di primo grado. Ed invero, la censura rivolta alla sentenza impugnata per vizio di motivazione è consentita solo quando nel ragionamento del giudice sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto con le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; è invece inammissibile ove prospetti una valutazione delle questioni di fatto e/o di diritto in senso difforme da quella operata dal giudice di merito, senza lo svolgimento di puntuali e argomentate critiche alla completezza e alla logicità delle ragioni della decisione, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, mentre alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (così, tra le tante, Cass. n. 7575/2011, n. 18119/2008, n. 23929/2007, n. 15489/2007, n. 16459/2004, n. 1317/2004).

2.4.- E’ infine inammissibile la censura riguardante la determinazione della data di completamento dei lavori, sollecitandosi una rivalutazione dei fatti già valutati dalla sentenza impugnata, la quale l’ha individuata nel 19 dicembre 1998 (e comunque in data non anteriore), in espressa e argomentata contrapposizione alla decisione del tribunale che aveva affermato la "sostanziale" conclusione dei lavori alla data del 30 novembre 1998 (nonostante le lavorazioni effettuate in epoca successiva ammontassero a L. 1.654.845.448). La censura è anche generica, non precisandosi quale sia la specifica rilevanza dell’assunto, essendosi accertato che, ai fini della maturazione del premio finale di accelerazione stabilito nell’accordo del 1997, il termine iniziale del 31 maggio 1998 era prolungabile solo di 73 giorni e non anche degli ulteriori 43 giorni relativi all’incendio, sicchè, alla data del 30 novembre 1998, il termine di 90 giorni (oltre il quale il ritardo sarebbe stato non tollerabile con conseguente perdita del diritto al premio) era comunque già decorso.

3.- Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il Consorzio Cooperative Costruzioni a versare alla s.p.a. Aeroporti di Roma le spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 10200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 30-08-2011) 05-12-2011, n. 45058 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 5/7/2004 il Tribunale di Cagliari condannava S.F. per i delitti di partecipazione ad un’associazione per delinquere dedita al traffico di stupefacenti (capo A, fino al gennaio 1990) e per due episodi di acquisto di un kg. di eroina e cocaina (capo C tra l’aprile e l’ottobre 1988) e un kg. di eroina importata dall’Olanda (Capo D tra il marzo ed aprile 1989).

All’imputato, con le attenuanti generiche prevalenti, la continuazione e la diminuente del rito abbreviato, veniva irrogata la pena di anni quattro di reclusione.

Con sentenza del 29/6/2010 la Corte di Appello di Roma, dopo avere rigettato alcune eccezioni di natura processuale, confermava la pronuncia di condanna. Osservava la Corte distrettuale che la responsabilità dell’imputato emergeva dalle seguenti circostanze:

– i legami accertati tra il S. e gli organizzatori del traffico illecito, C.G.P. e A.A., nonchè con B.I., la sua disponibilità alla distribuzione della droga trafficata, al reperimento di luoghi ove occultare i veicoli che trasportavano la sostanza, ad interessarsi della liquidazione di beni degli associati al fine di acquisire liquidità onde reperire i mezzi economici per importare la sostanza, tutto ciò manifestava una adesione al programma criminale non occasionale, ma stabile, sebbene con il ruolo di mero partecipe.;

– quanto ai capi C) e D), l’attività di intercettazione aveva mostrato la piena partecipazione ai fatti delittuosi.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, lamentando:

2.1. la violazione della legge processuale per avere il giudice di merito motivato la condanna sulla base di intercettazioni inutilizzabili. Invero la L. 1 marzo 2001, n. 63 sul cd. "Giusto Processo", modificando l’art. 267 cod. proc. pen. ha previsto che la captazione delle conversazioni non può essere disposta motivando i decreti sulla base di fonti confidenziali. Nel caso di specie, proprio fonti confidenziali avevano indotta all’intercettazione dell’utenza del S..

2.2. La violazione della legge processuale per avere il giudice di merito motivato la condanna sulla base di intercettazioni inutilizzabili, in quanto captate sulla base di decreti autorizzativi e di proroga privi di motivazione, ma con meri richiami per relationem alle annotazioni di P.G. 2.3. il difetto di motivazione e la sua illogicità in relazione alla pronuncia di condanna, a) Invero il giudice di merito, dopo avere valutato l’attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia C.G., non lo aveva ritenuto credibile laddove aveva escluso il coinvolgimento del S. nell’attività di traffico di droga e lo aveva indicato come un suo mero dipendente nell’attività edile. Lo stesso collaboratore, illustrando l’elenco scritto dei debitori per forniture di droga, aveva precisato che l’annotazione "capo cantiere F." non era riferita al S., ma a tale D.F., b) nella ricostruzione accusatoria il coimputato M. era stato ritenuto un acquirente di droga dal S.. Il M. era stato però assolto, pertanto illogico era continuare a ritenere la responsabilità dell’attuale imputato.

Motivi della decisione

3. Il ricorso deve essere rigettato.

3.1. La prima doglianza formulata, di natura processuale, è infondata.

Nel disciplinare i presupposti per disporre le intercettazioni, il dell’art. 267 cod. proc. pen., comma 1 bis (inserito dalla L. n. 63 del 2001) prevede che per la valutazione dei gravi indizi di reato si applica l’art. 203 che inibisce l’utilizzo come fonti di prova delle fonti confidenziali di P.G..

Nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso il difensore dell’imputato ha allegato all’atto di impugnazione la richiesta di autorizzazione all’intercettazione avanzata dai Carabinieri di Cagliari alla locale Procura della Repubblica.

Si legge nella richiesta che "Nel corso dell’intercettazione sull’utenza telefonica n. (OMISSIS), intestata a s.a.s. VITA PAN MAGIC, ed in uso a C.G.P., …, la cui figura è emersa come ampiamente indicato nel precedente atto in seguito all’intercettazione dell’utenza n. (OMISSIS), in uso a S. F., … si è avuto conferma a livello sospetti della fondatezza della notizia confidenziale in merito al coinvolgimento del suddetto individuo nel traffico di sostanze stupefacenti. Il C., come accertato a livello informativo è pluripergiudicato …".

Orbene da tale atto non si evince assolutamente che l’intercettazione dell’utenza segnalata è stata effettuata sulla base di fonti confidenziali, bensì che le intercettazioni già in atto a carico del S. avevano confermato le informazioni confidenziali a carico del C.. In breve gli elementi acquisiti attraverso le intercettazioni avevano consentito di riscontare dei sospetti a del coinvolgimento del detto C..

Pertanto ciò che ha indotto all’intercettazione non è stata la fonte confidenziale, bensì gli esiti di altre captazioni già in corso di svolgimento. Peraltro, ad ulteriore supporto della utilizzabilità delle intercettazioni, va ricordato l’insegnamento di questa Corte di legittimità, secondo il quale "Sono legittime le intercettazioni ambientali autorizzate, prima dell’entrata in vigore della L. 1 marzo 2001 n. 63 (cd. giusto processo), nell’ambito di indagini per delitti di criminalità organizzata, sulla sola base di informazioni confidenziali acquisite da organi di polizia giudiziaria, atteso che la nuova disciplina -secondo cui le dichiarazioni degli informatori sono inutilizzabili quali indizi idonei a legittimare le operazioni di intercettazioni finchè non si sia provveduto alla loro audizione ( art. 267 cod. proc. pen., comma 1 bis) – non può incidere, in mancanza di specifiche diverse indicazioni legislative, sulla loro utilizzazione, essendo la successione delle leggi processuali governata dal principio "tempus regit actum", che comporta la persistente validità ed efficacia degli atti compiuti nell’osservanza delle leggi all’epoca vigenti (Cass. Sez. u, sentenza n. 919 del 26/11/2003 Cc. (dep. 19/01/2004), Gatto, Rv. 226484; conf., Cass. Sez. 4, Sentenza n. 27891 del 04/05/2004 Ud. (dep. 21/06/2004), Mucci, Rv. 229075).

3.2. Con una seconda censura di natura processuale la difesa dell’imputato ha lamentato la omessa declaratoria di inutilizzabilità delle intercettazione per difetto di motivazione dei relativi decreti autorizzativi, in quanto giustificati con richiamo per relationem alle annotazioni di P.G. Anche tale doglianza è infondata.

Va premesso che, con costante giurisprudenza, questa Corte ha affermato che il difetto di motivazione dei decreti è causa di inutilizzabilità delle intercettazioni (ex plurìmis, Cass. Sez. Un., sent 17 del 21-9-00 (ud. 21-6-00) rv. 216665) e che l’inutilizzabilità è rilevabile di ufficio anche nel rito abbreviato (sez. u, Sentenza n. 16 del 21/06/2000 Ud. (dep. 30/06/2000) Rv. 216246).

Nel caso di specie, i decreti autorizzativi sono stati emanati richiamando le relazioni di polizia giudiziaria e le richieste del P.M..

Va, pertanto, richiamata la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, secondo la quale "In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, è legittima la motivazione "per relationem" dei decreti autorizzativi quando in essi il giudice faccia richiamo alle richieste del P.M. ed alle relazioni di servizio della polizia giudiziaria, ponendo così in evidenza, per il fatto d’averle prese in esame e fatte proprie, l’"iter" cognitivo e valutativo seguito per giustificare l’adozione del particolare mezzo di ricerca della prova. (Principio affermato, nella specie, relativamente ad intercettazioni disposte nell’ambito d’indagini sulla criminalità organizzata, per cui era richiesta la sola presenza di "sufficienti indizi di reato", ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 13, conv. con modif. in L. n. 203 del 1991) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 46056 del 14/11/2008 Cc. (dep. 12/12/2008), Montella, Rv. 242233; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11525 del 03/02/2005 Cc. (dep. 22/03/2005), Gallace, Rv. 232261; Cass. Sez. 6, Sentenza n. 42688 del 24/09/2008 Ud. (dep. 14/11/2008), Caridi, Rv. 242418).

Ne consegue per quanto detto la infondatezza della doglianza.

3.3. La difesa dell’imputato ha censurato la pronuncia di condanna per contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione a due specifici punti.

In primo luogo la valutata attendibilità della chiamata in correità del S. da parte del C.G..

Quest’ultimo, dopo avere nei vari interrogatori ricostruito la sua attività criminale nel campo del traffico di stupefacenti, aveva precisato di vantare crediti nei confronti di acquirenti di stupefacenti, tra i quali il S. e per tale motivo aveva dato incarico all’ A. di recuperare detti crediti.

Successivamente, in sede dibattimentale, aveva escluso il coinvolgimento del S. nell’attività di cessione di droga, riferendo che era un suo mero dipendente.

La corte di merito, nel valutare l’attendibilità della prima chiamata in correità, ha osservato come del coinvolgimento del S. nell’attività di traffico di droga erano stati acquisiti specifici elementi di prova e di riscontro, tra i quali:

– l’utilizzo di linguaggio criptico nelle intercettazioni;

– il rinvenimento presso la sua abitazione di 180 bustine di cellophane, di consueto usate per confezionare la droga;

– il rinvenimento di numerosi monili d’oro, tipico mezzo di pagamento delle dosi da parte dei tossicodipendenti acquirenti;

– il contenuto dell’intercettazione del 18/6/1988 in cui tale C. lo informa che un suo amico era interessato alle "mattonelle bianche" ed a tal fine organizzano un incontro. In riferimento al fatto che si trattasse di droga, si evince dalla circospezione e cautela con la quale il S. organizza l’incontro, incompatibile con la ordinaria vendita di materiale edile;

– dall’annotazione sull’agenda sequestrata a G.C., in cui era annotata la contabilità del clan, a fianco alla voce "capo cantiere F." della cifra di L. 20.000.000, a riscontro del credito vantato dal C. nei confronti di S.F..

Il giudice di merito, nel valutare la ritrattazione del C. (non era vero che S. spacciasse; l’annotazione sull’agenda era riferibile a tale D.F.), ha osservato come essa fosse inattendibile in ragione dei numerosi riscontri rinvenuti del suo coinvolgimento nella attività illecita e giustificata alla luce del fatto che il S., rispetto al altri coimputati ( A. e B.) aveva mantenuto durante la detenzione del C. un atteggiamento corretto, senza tentare di appropriarsi dei suoi beni.

Ciò detto, va ricordato che secondo gli insegnamenti di questa Corte, "la ritrattazione non costituisce elemento in grado di escludere l’attendibilità intrinseca del chiamante in correità, purchè il giudice di merito, con congrua motivazione, dia conto del mutamento della posizione del dichiarante ovvero allorchè risulti l’assoluta inattendibilità delle controdichiarazioni" (cass. Sez. 6, Sentenza n. 7627 del 31/01/1996 Ud. (dep. 30/07/1996), Alleruzzo, Rv.

206583; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8756 del 23/01/1991 Ud. (dep. 05/09/1991), Giaselli, Rv. 188117).

Nel caso di specie il giudice di merito, con adeguata motivazione, ha evidenziato come le originarie accuse del C. al S. avevano trovato riscontri nella attività di indagine e nelle intercettazioni e come la ritrattazione trovasse giustificazione in un sentimento di amicizia del propalante nei confronti dell’odierno imputato. La non manifesta illogicità della motivazione la rende insindacabile sul punto in sede di legittimità.

In secondo luogo la difesa dell’imputato ha lamentato la contraddittorietà della motivazione, laddove nella ricostruzione accusatoria il coimputato M. era stato ritenuto un acquirente di droga dal S.. Il M. era però stato assolto, pertanto illogico e contraddittorio era continuare a ritenere la responsabilità dell’attuale imputato.

Anche tale censura è infondata.

Invero i reati per i quali il S. è stato condannato non sono stati commessi in concorso con il M., pertanto l’assoluzione di quest’ultimo non è incompatibile con la condanna dell’attuale imputato. Inoltre la motivazione della assoluzione del M. non è stata basata sulla acquisizione di una di una piena prova di innocenza, bensì sulla presenza di "una prova insufficiente" e ciò rende coerente detta assoluzione con la condanna del S. in ordine al quale il giudice di merito ha richiamato i molteplici elementi di prova che rendevano fondata e riscontravano l’accusa.

Ne consegue che, nella sostanza, le censure mosse dalla difesa alla sentenza, esprimono solo un mero dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto (operata in modo conforme dal giudice di primo e secondo grado) ed invitano ad una rilettura nel merito della vicenda, non consentita nel giudizio di legittimità, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata che regge al sindacato di legittimità, non apprezzandosi nelle argomentazioni proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli, potrebbero qui avere rilievo.

All’infondatezza dei motivi di impugnazione consegue il rigetto del ricorso e, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte dichiara rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 19-07-2012, n. 12470 Opposizione all’esecuzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. Con sentenza del 5 febbraio 2009 la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello proposto dal Fallimento della s.p.a. A.F. & Figli avverso la sentenza del 4 marzo 2003, con la quale il Tribunale di Roma aveva rigettato l’opposizione da esso proposta avverso l’esecuzione forzata immobiliare iniziata nei suoi riguardi dalla s.p.a. Banca di Roma (poi divenuta Capitalia s.p.a.) sulla base di un’ipoteca per L. sei miliardi, gravante su un immobile della società allora in bonis a garanzia di un mutuo fondiario di L. due miliardi, concesso dalla Banca alla s.r.l. T. con atto notarile del 15 aprile 1991.
1.1. L’opposizione all’esecuzione, introdotta nel 1994, era stata proposta adducendosi la nullità del contratto di mutuo per illiceità della causa o comunque del motivo comune ad entrambe le parti e, quindi, l’insussistenza del titolo esecutivo.
A sostegno dell’opposizione e della richiesta di accertamento della nullità del mutuo, l’opponente aveva dedotto: che il Banco di Santo Spirito, poi trasformatosi in Banca di Roma, in data 19 aprile 1991 aveva rinunziato ad un pignoramento eseguito sull’immobile il 7 gennaio precedente in danno del s.p.a. Archibugi, consentendo l’estinzione della procedura esecutiva; che l’8 maggio 1991 la T. aveva acquistato dalla Archibugi l’immobile per un prezzo di L. 1.450.000.000 e lo stesso giorno il Banco di Santo Spirito aveva erogato alla T. L. 2.000.000.000 in esecuzione del mutuo del 15 aprile 1991; che la mutuataria aveva utilizzato la somma per L. 985.565,095 per soddisfare il credito del Banco di Santo Spirito verso la Archibugi e riguardo al quale era intervenuto il pignoramento rinunziato, e per L. 464.434.905 per versarlo alla venditrice a saldo del prezzo pattuito; che il 28 novembre 1991 la Archibugi era stata dichiarata fallita e la Curatela aveva proposto con atto del 7 febbraio 1992 azione revocatoria contro la T. per far dichiarare l’inefficacia della compravendita dell’8 maggio 1991 ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1 e, comunque, ai sensi del comma 2 di detta norma, con richiesta di restituzione del bene; che con successiva citazione la Curatela aveva richiesto la revoca del pagamento effettuato dalla T. alla Archibugi in relazione alla compravendita; che la stessa Curatela aveva proposto, con atto del 29 gennaio 1992, azione di declaratoria di nullità o, subordinatamente, di inefficacia ai sensi della L. Fall., art. 67 del rogito del 29 gennaio 1992, con cui lo stesso immobile era stato venduto dalla T. alla s.r.l. Immobiliare Sino; che la concatenazione degli atti su indicati, nonchè il fatto che l’amministratore unico della Archibugi era il socio di maggioranza della T., evidenziava la callida intenzione del Banco di Santo Spirito, alla quale aveva accondisceso la Archibugi, di soddisfarsi del proprio credito originariamente chirografario, che era di L. un miliardo, sostituendolo con uno ipotecario di lire due miliardi, destinato ad assorbire per intero l’attivo fallimentare, con la conseguenza della consecuzione di un ingiustificato vantaggio a scapito della par condicio creditorum.
p. 1.2. Il Tribunale, nella costituzione della Banca di Roma e nella contumacia della Telart, a sua volta fallita, dopo una sospensione del giudizio in attesa della definizione dei giudizi introdotti dall’opponente, aveva respinto l’opposizione sul rilievo che, se pure si poteva convenire che il mutuo fosse stato concesso dal banco al fine di frodare i creditori, tale scopo, per un verso non poteva determinare la nullità del contratto, ma solo rendere possibile l’azione revocatoria, che, del resto era stata proposta ed era stata frattanto accolta, per altro verso non giustificava l’applicazione della figura del contratto in frode alla legge e neppure di quella del contratto contrario a norme imperative.
p. 2. Il giudizio sull’appello della Curatela del Fallimento Archibugi si è svolto nella costituzione di Capitalia e nella contumacia del Fallimento T.. p. 3. Contro la sentenza della Corte capitolina ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi la Curatela del Fallimento della Archibugi.
Ha resistito con controricorso la s.p.a, Unicredit quale incorporante della Capitalia s.p.a.
p. 4. Le parti costituite hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

p. 1. Preliminarmente la Corte rileva che si imporrebbe un ordine di rinnovazione della notificazione del ricorso alla T., in quanto la relata della notificazione diretta al Fallimento della stessa, presso il suo curatore, evidenzia che un soggetto che è stato rinvenuto nel luogo in cui la notifica è stata tentata, ha dichiarato per conto del medesimo che il fallimento sarebbe stato chiuso da cinque anni al momento della stessa.
Tanto imporrebbe, dovendosi presumere che la società T. abbia riacquistato la capacità, di ordinare il rinnovo della notificazione nei suo riguardi.
E’ stato, infatti, ritenuto in passato che "Nel procedimento in cui sia parte il fallimento, in persona del curatore, la sopravvenuta chiusura della procedura concorsuale, implicando la cessazione dalla carica del curatore medesimo ed il conseguente venir meno della sua capacità processuale, configura evento interruttivo regolato dal disposto dell’art. 300 cod. proc. civ., pertanto, quando il fallimento si sia costituito in primo grado per mezzo di procuratore, il verificarsi di detto evento, dopo la sentenza del primo giudice, non osta a che il processo d’appello venga validamente instaurato con atto notificato a quel procuratore e prosegua ritualmente nei confronti del fallimento, fino al momento in cui, secondo le disposizioni del citato art. 300 cod. proc. civ., l’evento medesimo non sia certificato dall’ufficiale giudiziario, ovvero dichiarato o notificato dal procuratore (il quale resta a tal fine legittimato anche quando il fallimento rimanga contumace in Sede di gravame), tenendo conto che solo nel suddetto momento si determina l’interruzione del processo e l’inizio del decorso del termine per la sua riassunzione o prosecuzione" (Cass. n. 3360 del 1984).
Mente, più di recente, si è detto che Il fallimento di una società e dei suoi amministratori non determina il venir meno di questi ultimi, perchè la società rimane in vita ed essi restano in carica, salva la loro sostituzione; ne consegue che, ove detta società ritorni "in bonis" a seguito della chiusura del fallimento, essa riacquista la propria ordinaria capacità, con tutti i conseguenti poteri di rappresentanza degli organi sociali. (Cass. n. 20947 del 2009).
Ed ancora, nella logica che competa alla parte che esercita il diritto di impugnazione individuare la controparte nella dimensione relativa alla capacità che essa ha al momento in cui il diritto di impugnazione viene esercitato, che Qualora uno degli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo (nella specie, la chiusura del fallimento con perdita della capacità processuale da parte del curatore e riacquisto della stessa da parte del fallito) si verifichi nel corso del giudizio di secondo grado, prima della chiusura della discussione, e tale evento non venga dichiarato nè notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell’art. 300 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve essere instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati, alla luce dell’art. 328 cod. proc. civ., dal quale si desume la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato nè notificato. Pertanto, l’impugnazione effettuata alla parte non più legittimata è affetta da nullità rilevabile d’ufficio e, limitatamente ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995, suscettibile di sanatoria con efficacia solo "ex nunc", con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione (Cass. n. 3351 del 2007; conf.: 20611 del 2011).
D’altro canto, nella specie la causa è inscindibile, concernendo litisconsorzio necessario iniziale, ai sensi dell’art. 102 c.p.c..
Tuttavia, l’inammissibilità del ricorso, della quale di seguito si darà conto, rende superfluo ordinare il rinnovo della notificazione.
Ciò, alla stregua del principio di diritto secondo cui Nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso (nella specie, per la palese inidoneità del quesito di diritto), di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio. (Cass. sez. un. n. 6826 del 2010).
p. 2. Il Collegio ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, perchè proposto in violazione dell’art. 366-bis c.p.c., che è applicabile, in quanto la sentenza impugnata è stata pronunciata anteriormente al 4 luglio 2009, data dell’intervenuta abrogazione, che, tuttavia, ha avuto luogo con la conservazione dell’ultrattività della norma per i ricorsi proposti – come quello in esame – successivamente a quella data avverso provvedimenti pronunciati anteriormente (art. 58, comma 5, della legge).
La ragione di inammissibilità discende dalla circostanza che il ricorso prospetta – come, del resto, ha inteso anche la resistente, che non a caso si è preoccupata di esaminarli separatamente – quattro motivi, che indica l’uno di seguito all’altro ed illustra, quindi, sotto le lettere da a) di e), ma – in disparte che non si specifica quale motivo si illustra sotto ciascuna lettera – senza adempiere riguardo ad ognuno di essi al requisito di cui all’art. 366- bis c.p.c., a conclusione dell’illustrazione ipoteticamente riferibile ad ognuno.
In particolare:
a) alla pagina sei vengono indicati i quattro motivi nei seguenti termini:
– "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1343 e 145 cod. civ.; art. 360 c.p.c., n. 3";
– "Violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 216, comma 3:
art. 360 c.p.c., n. 3";
– "Violazione dell’art. 2 Cost. e dei principi di buona fede e correttezza che devono informare qualsivoglia atto di autonomia privata: art. 360 c.p.c., n. 3;
– "Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., n. 5";
b) tali indicazioni, ancorchè non vengano prospettate come di consueto, con una numerazione o altra enunciazione similare, integrano, quanto alle prime tre, l’articolazione di una proposizione evidenziatrice dell’intenzione di prospettare ed illustrare specifiche violazioni di norme di diritto sostanziale e, quindi, come del resto sotteso all’evocazione dell’art. 360, n. 3 di un motivo ai sensi di tale norma, mentre la quarta rivela l’intenzione di voler illustrare un motivo relativo alla c.d. quaestio facti ai sensi del n. 5 della norma;
c) a ciascuno dei tre motivi ai sensi dell’art. 360, n. 3 doveva corrispondere un quesito di diritto ai sensi dell’art. 366-bis, mentre l’illustrazione del quarto motivo doveva chiudersi o comunque contenere il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione", cui alludeva quella norma (si vedano Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 2007, poi seguite da copiosa e costante giurisprudenza di questa Corte);
d) viceversa, in chiusura della esposizione di tutti e quattro i motivi, peraltro condotta senza una precisa enunciazione di quale fra di essi si intenda illustrare, è enunciato un unico "quesito di diritto".
In tal modo l’art. 366-bis risulta violato perchè imponeva che l’illustrazione di ognuno dei tre motivi ai sensi dell’art. 360, n. 3 si concludesse con un quesito e perchè il motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non si conclude con nè contiene il detto momento di sintesi.
In proposito si ricorda che già Cass. n. 27130 del 2006 aveva statuito che In tema di ricorso per cassazione, secondo la nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, il quesito di diritto prescritto dal nuovo art. 366-bis cod. proc. civ. non può essere unico per l’intero ricorso, ma dev’essere formulato separatamente rispetto a ciascuna censura formulata, come si evince sia dall’indicazione separata nella norma dei singoli motivi di ricorso, sia dall’espressione "ciascun motivo", che si legge nel suo comma 2; si veda, altresì, Cass. sez. un. n. 21864 del 2007, per la sottolineatura della stessa esigenza; ed ancora Cass. n. 16275 del 2007, secondo cui Per effetto dell’art. 366 bis cod. proc. civ., così come introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 i ricorsi per cassazione proposti avverso decisioni pubblicate a decorrere dal due marzo 2006 devono contenere, a pena di inammissibilità, la formulazione di un quesito di diritto che non può essere unico per l’intero ricorso ma, secondo la chiara lettera della norma, formulato separatamente rispetto a ciascuna censura.
Si rammenta, inoltre, che è stato statuito che La previsione di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., là dove esige che l’esposizione del motivo si debba concludere con il quesito di diritto, non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, essendo consentita la elencazione finale o conclusiva di tutti i quesiti, purchè, in tal caso, ciascuno di essi sia espressamente riferito al motivo, con richiamo numerico od alla rubrica delle violazioni addotte, oppure il collegamento al motivo sia inequivocabilmente evidenziato dalla esistenza di un rapporto di pertinenza esclusiva, in modo tale che esso sia agevolmente individuabile, senza necessità di una particolare analisi critica. (Cass. n. 5073 del 2008).
Nella specie il quesito nella sua prima proposizione evoca insieme gli artt. 1343 e 1345, in relazione alla L. Fall., art. 261, comma 3, e i principi di buona fede e correttezza e la stessa cosa fa la seconda proposizione, che, peraltro evoca anche una norma, l’art. 2740 c.c. cui non si fa in precedenza riferimento. In tale situazione è impossibile raccordare le due proposizione ad alcuno dei tre motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dato che si richiamano promiscuamente norme relative al primo ed al secondo nella prima e, nella seconda, oltre ad esse, i principi evocati nel terzo motivo.
Si rileva, d’altro canto, che, se le quattro enunciazioni indicative dei motivi si dovessero considerare come un motivo formalmente unico, almeno nell’intenzione della ricorrente, verrebbe in rilievo la seguente statuizione: In caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinchè non risulti elusa la "ratio" dell’art. 366-bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione.". (Cass. sez. un. n. 5624 del 2009).
p. 3. I quattro motivi e, quindi, l’intero ricorso sarebbero comunque inammissibili, perchè dedotti in violazione anche del requisito di ammissibilità di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, siccome eccepito anche dalla resistente: infatti, si fondano sul contenuto di una serie di documenti – il contratto di mutuo, la compravendita, la concessione di ipoteca, la rinuncia al pignoramento e altri – dei quali non forniscono l’indicazione specifica ai sensi di detta norma, che costituisce il precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione. Infatti, non si riproducono nè direttamente nè indirettamente, con l’indicazione della parte del documento in cui l’esposizione indiretta troverebbe riscontro, da farsi in modo adeguato, come ad esempio indicando la pagina e le righe di essa, le parti di detti documenti sulle quali si fondano i motivi e non si indica se e dove essi erano stati prodotti nelle fasi di merito e se e dove siano stati prodotti in questa sede di legittimità, come imponeva una consolidata giurisprudenza della Corte (ex multis: Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e n. 7161 del 2010).
E’ appena il caso di rilevare che sia la prospettazione promiscuamente illustrativa dei motivi sia la stessa formulazione dell’unico inidoneo quesito di diritto alludono espressamente al condizionamento del mutuo alla iscrizione dell’ipoteca sull’immobile già esecutato, onde almeno la conoscenza del contenuto dell’atto in questione risulta particolarmente rilevante.
Non solo: la stessa sentenza impugnata fa un espresso riferimento al contratto di dazione dell’ipoteca alla fine del punto 3. della motivazione, il che evidenzia ulteriormente la fondatezza del rilievo ai sensi dell’art. 366, n. 6.
p. 4. Il Collegio osserva inoltre che i motivi sono illustrati senza che ci si faccia carico della complessiva motivazione della sentenza impugnata, della quale si evoca solo il punto in cui essa ha osservato che l’illiceità della causa dovesse escludersi in quanto il pregiudizio per il ceto creditorio doveva considerarsi condizionato al futuro e, al momento incerto, inadempimento del creditore principale. Questa espressione riportata fra virgolette è l’unica parte della motivazione espressamente evocata.
Senonchè, in dispare che essa è estrapolata da una proposizione più ampia e, fra l’altro riferita ad un’argomentazione concernente anche l’esclusione del motivo illecito comune alle parti, essa rappresenta soltanto la conclusione di un’argomentazione e non, quindi, la motivazione. Quest’ultima è la risultante di un ragionamento che, dopo avere disatteso un rilievo della sentenza di primo grado circa la sottovalutazione della circostanza della coincidenza fra la persona fisica dell’amministratore della Archibugi e il socio di maggioranza della T. (punto 1/a), si articola con una precisa argomentazione svolta al successivo punto 1/b e con altra argomentazione successiva al punto 1/c, delle quali il passo riportato nel ricorso costituisce solo la conclusione. Sicchè, dovendo i motivi di ricorso per cassazione, come ogni motivo di impugnazione, necessariamente concretarsi nella critica della motivazione della sentenza impugnata, nella specie il ricorso somministra motivi che vengono illustrati senza alcuna considerazione di essa e, quindi, sono inidonei allo scopo del motivo di ricorso per cassazione.
Onde, anche sotto tale profilo i motivi sono inammissibili.
p. 5. Si deve, poi, aggiungere che, prescindendo dall’assorbenza di quest’ultimo rilievo, se l’illustrazione dei motivi si considerasse, pur non essendo parametrata alla motivazione della sentenza impugnata, si evidenzierebbe:
a) che il motivo di violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418 c.c. è articolato senza espressa enunciazione di quale sia la norma imperativa violata;
b) che, se – superando il fatto che compete al ricorrente svolgere in modo espresso e preciso l’attività di dimostrazione della violazione della norma di diritto di cui asserisce la violazione, onde evitare fraintendimenti della Corte e difficoltà per la difesa avversaria – si ipotizzasse che la norma imperativa violata è quella sottesa alla norma incriminatrice penale di cui alla L. Fall., art. 216, riguardo alla bancarotta preferenziale, dovrebbe rilevarsi che manca qualsiasi attività dimostrativa di come e perchè si fosse realizzata la fattispecie di cui a detta norma, posto che si evoca solo il passo motivazionale sopra ricordato e lo si critica dicendo – del tutto ambiguamente ed apoditticamente – che non si sarebbe considerato che la problematica del reato di bancarotta preferenziale, di cui alla L. Fall., art. 216, allorquando agisce in giudizio, come nella specie, il curatore della società dichiarata fallita, non può considerarsi un fatto futuro e, tantomeno, incerto, essendo evidente che l’intervenuto fallimento era ed è circostanza idonea e sufficiente a determinare la configurazione del reato, quando, come nella specie, sia stata posta in essere una fattispecie negoziale diretta a favorire il recupero dei crediti di un soggetto ai danni di altri soggetti, con palese violazione, quindi, della c.d. par condicio creditorum;
c) che, infatti, in tal modo non solo non ci si preoccupa di svolgere una precisa attività di riconduzione della vicenda sotto la norma dell’art. 216 nelle sue note descrittive, ma con evidente circolarità del ragionamento si finisce per attribuire al fallimento la funzione di giustificare ex sè oggettivamente tale riconduzione, senza fornire al riguardo alcuna spiegazione su come e perchè esso possa averla svolta, il che sarebbe stato, invece, necessario, tenuto conto che la sentenza impugnata nel punto 1/b dice che è rimasta indimostrata nel giudizio l’esistenza di una già presumibile incapienza del patrimonio della Archibugi ed anche da tanto desume che non era logicamente legittimo assumere l’esistenza di una maliziosa preordinazione della dazione di ipoteca per pregiudicare (o con la ragionevole previsione di pregiudicare) i creditori della Archibugi;
d) che parimenti priva di attività dimostrativa è l’illustrazione dei motivi quanto alla violazione degli artt. 1343 e 1345 c.c., nel senso che non viene svolta alcuna specifica attività diretta a ricondurre il fatto storico – che avrebbe dovuto essere precisato in tutte le note rilevanti ed offerto alla Corte con i necessari riferimenti a dove esse trovassero riscontro nello svolgimento del processo – sotto le dette norme;
e) che la stessa cosa è a dirsi dell’evocazione dei principi di correttezza e solidarietà, richiamati nell’accezione in cui sarebbero stati assunti da Cass. n. 20106 del 2009, alla quale, peraltro, si fa dire, senza evocare il preciso passo motivazionale che lo confermerebbe, che avrebbe considerato operante nell’ambito contrattuale un principio per cui qualsiasi contratto, che venga stipulato in violazione del principio di buona fede e correttezza, deve ritenersi contrario a norme imperative, con conseguente sua nullità.
p. 6. Il ricorso dev’essere, conclusivamente dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro diecimiladuecento/00, di cui duecento/00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 26 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012

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