T.A.R. Lazio Roma Sez. III bis, Sent., 26-07-2011, n. 6684

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Liceo Linguistico ed il Liceo Scientifico dell’Istituto Paritario KENNEDY HOLDING è riconosciuto paritario in virtù del decreto di parità scolastica dell’USR del Lazio n. 11985 del 12.10.2001.

I ricorrenti, quali studenti del predetto istituto, asseriscono che la loro scelta sarebbe stata determinata dalla circostanza che 1’Istituto Kennedy costituisce una struttura formativa non statale di particolare rilevanza e prestigio a Roma ed è (comparativamente con altre similari) dotata di strutture moderne, di servizi e di un corpo docente particolarmente qualificato.

Stando così le cose, sulla base della consapevolezza del dato incontestabile che il corso serale del LICEO LINGUISTICO (scuola definita a scarsa diffusione sul territorio) e del LICEO SCIENTIFICO dell’Istituto KENNEDY fossero ormai riconosciuti quali "paritari", i ricorrenti (studenti lavoratori) dichiarano di aver ritenuto di perfezionare l’iscrizione, onde completare un percorso già altrove in precedenza intrapreso (oppure derivante da idoneità interne) e in parte già svolto, partendo a buon diritto dal presupposto che le classi del corso di studio prescelto sarebbero state del tutto equiparate a quelle di una scuola pubblica, così come lo sarebbe stato il relativo titolo finale conseguito.

I ricorrenti precisano altresì che detta scelta sarebbe stata presa nel rispetto dell’autonomia scolastica e della libertà d’impresa della gestione alla luce della forte richiesta di iscrizioni e dell’incremento delle domande, – dovuto proprio alla totale assenza sul territorio di analoghe scuole statali con offerta formativa rivolta agli studenti lavoratori – che avrebbe giustificato l’attivazione dei nuovi corsi anche in considerazione della impossibilità di accorpare i nuovi iscritti nelle classi già costituite per incapienza delle aule e la conseguente necessità di non intaccare il giusto rapporto tra alunni e capienza della classe, posto che il numero massimo degli alunni era stato già raggiunto al mattino.

Di conseguenza l’Istituto attivava le nuove classi nell’orario pomeridiano anche al fine di soddisfare la richiesta di numerosi giovani lavoratori studenti.

Di conseguenza, anche per questi corsi, la scuola, avanzava domanda di riconoscimento agli effetti della estensione della parità già concessa all’Istituto per la classe in argomento, predisponendo il piano didattico e organizzativo e trasmettendo apposita istanza correlata delle prescritte dichiarazioni di legge e della correlata documentazione e costituendo l’istituto "Kennedy" l’unica scuola presente nel territorio con un Liceo Linguistico con corsi serali per studenti lavoratori.

A tale riguardo l’Amministrazione disponeva in parte qua il diniego dell’istanza indicato in epigrafe in quanto "…..si richiama il D.M. n. 83/2008 -punto 4- riconoscimento della parità c. 4.8 -: "per le classi terminali della scuola secondaria superiore il gestore può chiedere, con adeguata motivazione, entro l’avvio dell’a.s., l’autorizzazione al Direttore Scolastico regionale, per una sola classe collaterale, qualora gli studenti neo iscritti non possano essere inseriti nelle classi esistenti…."

Con il ricorso in esame parte ricorrente impugna in parte qua il predetto diniego deducendo le seguenti doglianze:

1) VIOLAZIONE DELL’ ART. 1, COMMA 6, LEGGE 62/2000, ART. 2.3. DELLA CIRCOLARE MINISTERIALE N. 31/2003, della NOTA MINISTERIALE DEL 26/01/07, PROT. 1433/FR, DELL’ART. 7 DELLA LEGGE N. 241/90, art.10 bis LEGGE 241/90 per come lllodificata dalla L. n. 15/2005; DEGLI ARTT. 27 E 97 COSTITUZIONE ED ECCESSO DI POTERE. PRESENZA DI STUDENTI LAVORATORI.

Il provvedimento impugnato è illegittimo anche per avere interpretato forse restrittivamente il già citato D.M. n.83/2008 che consente oggi diverse possibilità di sdoppiamento, e quindi in qualche modo conferma la interpretazione che a suo tempo dava la nota ministeriale del 26.1.07 prot.1433/FR.

Sotto questo profilo l’atto impugnato è illegittimo per carenza di istruttoria e di dovuta considerazione della condizione di lavoratori degli iscritti ai corsi pomeridiani e serali.

2) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 4, COMMA 2 DEL D.p.r. 275/99 DELL’ART. l, COMMA 6, LEGGE 62/2000, D.M. n.267/2007; ART. 2.3. DELLA CIRCOLARE MINISTERIALE N. 31/2003; VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL D.P.R. N. 275/99 E DEL SISTEMA DELL’AUTONOMIA SCOLASTICA. VIOLAZIONE DELL’ ART. 149 TRATTATO CEE. ECCESSO DI POTERE(presenza di studenti lavoratori).

Occorre anche specificare che la scuola con la propria istanza di estensione della parità ha fatto specifico riferimento al fatto che i nuovi corsi debbano svolgersi per soddisfare l’esigenza dei numerosi studenti lavoratori, che rappresentano i nuovi iscritti

Quindi, gli atti impugnati, privi di motivazione per questo aspetto, ledono anche l’interesse degli studenti lavoratori all’offerta formativa approntata dalla scuola.

Per loro la scuola ha organizzato questo nuovo corso di studi. Ha esercitato la propria autonomia organizzativa, ha ritenuto di soddisfare le loro esigenze e agevolare la loro formazione culturale e professionale in armonia con l’attività lavorativa. Questo è pienamente in armonia con i principi dell’autonomia scolastica e dell’ordinamento scolastico conformemente alla consolidata interpretazione del Consiglio di Stato, secondo il quale: "….Ritenuto che il disposto di cui all’art. l, comma 4, lett. f), della legge n. 62/2000 nella stessa prassi amministrativa (v. C.M. n. 31 del 18 marzo 2003, punto 36; nota prot. 245/UffI, 20 febbraio 2002, della D.C. organizzazione servizi territorioarea parità scolastica; nota Capo Gabinetto Ministro PI. 26 gennaio 2007, n. 1433/FR) è interpretato nel senso di non precludere l’istituzione di classi terminali allorché ricorrano determinate condizioni giustificative indicate negli atti anzidetti con particolare riferimento agli studenti lavoratori;… che la disciplina normativa anzidetta non sembra precludere, allorché ne ricorrano condizioni verificabili ai sensi di quanto precede, la possibilità di istituire eccezionalmente ulteriori classi singole in presenza delle pressanti esigenze degli studenti lavoratori..". (Cons. Stato, sez, VI, ordinanze n. 6364/07, n. 924, n. 925 e n. 939 del 19/02/2008).

Di qui la illegittimità per difetto di istruttoria e motivazione, illogicità e violazione delle leggi italiane ed europee del provvedimento impugnato.

3) VIOLAZIONE DI LEGGE EX ARTT. 1 E 2 LEGGE 241/1990, EX DPR 275/1999, EX C.M. 110/2007 ED EX OO.MM. DISCIPLINANTI PROCEDURA ESAME DI STATO. ECCESSO DI POTERE PER ILLOGICITA E SVIAMENTO.

L’amministrazione scolastica nella fretta di negare il riconoscimento della parità si è dimenticata di fornire ai ricorrenti una motivazione adeguata: in particolar modo, nessun riferimento ad eventuale istruttoria svolta, né tanto meno ad una comparazione tra gli interessi privati e quelli pubblici coinvolti è stata compiuta: il limitarsi ad una mera contestazione formale circa l’asserita impossibilità di costituzione (richiamando mere norme regolamentari e giurisprudenza in conferente col caso di specie) è chiaro indice di illegittimità, la quale è suffragata dall’omessa totale considerazione della circostanza che successivamente alla data del 1 settembre 2010 non è affatto vietato accogliere nuove iscrizioni e costituire nuove classi specie se serali per studenti lavoratori in assenza di strutture statali presenti nel territorio.

Non vi è dubbio che le inesistenti motivazioni ed i generici riferimenti legislativi non possono essere considerati quali motivazione minimamente valida di un provvedimento così gravoso per una serie di soggetti (scuola, lavoratori della scuola, studenti e famiglie degli studenti), ove tra l’altro non si scorge neanche una minima valutazione tra gli interessi pubblici in gioco e quelli dei privati cittadini (gli studenti), dell’azienda (l’istituto) e dei lavoratori (insegnanti e non).

Occorrerà, dunque, tenere presente che il difetto di motivazione, il quale per costante giurisprudenza (cfr. inter alia Consiglio di stato, sez. V, 30 agosto 2006, n. 5064), si configura quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito nell’emanazione di un atto del quale risultino indecifrabili le ragioni che ne hanno determinato l’adozione, ha nel caso di specie rilevanza.

4) VIOLAZIONE DI LEGGE EX ART. 4.3 DEL D.M. 83/2008. ECCESSO DI POTERE PER ILLOGICITA" E SVIAMENTO.

Il D.M, 83 del 10 ottobre 2008, il quale ha ad oggetto: "Linee Guida per l’attuazione del decreto ministeriale contenente la disciplina delle modalità procedimentali per il riconoscimento della parità scolastica e per il suo mantenimento" all’art. 4 rubricato "Il Riconoscimento della Parità" prevede al punto 3 che: "Per le scuole già paritarie, in caso di istituzione di corsi di indirizzi diversi o di corsi serali o di cessazione di corsi il Direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale emana apposito decreto modificativo di quello originario".

Orbene il tenore letterale della norma richiamata stabilisce espressamente che l’USR debba nei casi menzionati emanare un decreto modificativo della parità, peraltro già riconosciuto.

Nel caso in esame ci troviamo di fronte ad un’istituzione scolastica già riconosciuta paritaria ove viene negato il riconoscimento ad una singola classe di un corso "speciale" ad orario serale composto, peraltro da studenti lavoratori.

Ne risulta, quindi che sebbene risultino rispettate tutte le caratteristiche positivamente stabilite dall’art. 4.3 delle lince guida e sostanzialmente, fondanti la ratio legis, l’USR Laziale abbia deciso sulla scorta del rinvio ad una norma inconferente rispetto a quella speciale, nonché a giurisprudenza inconfrente che, nel caso di specie non si possa riconoscere la parità alle classi V sez. C ad orario serale per studenti lavoratori del Liceo Linguistico (rammentiamo: senza neanche considerare la peculiare scarsa diffusione di tale indirizzo di studi, maggiormente considerando la caratteristica dell’orario serale rivolto a studenti lavoratori) e del Liceo Scientifico.

5) VIOLAZIONE DELL’ ART. I, COMMA 6, LEGGE 62/2000, D.M. n.267/2007; ART. 2.3. DELLA CIRCOLARE MINISTERIALE N. 31/2003; VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL D.P.R. N. 275/99 E DEL SISTEMA DELL’AUTONOMIA SCOLASTICA. ECCESSO DI POTERE. (Ovvero sulla possibilità di sdoppiamento del corso).

Il provvedimento impugnato è anzitutto illogico e contraddittorio in relazione alla unica motivazione data dell’Amministrazione che nega la parità esclusivamente richiamando in modo generico il D.M. n.83/2008 che come visto al contrario contiene proprio norme autorizzative agli sdoppiamenti.

La legge consente, espressamente, l’attivazione di un nuovo corso addirittura riconoscendo la parità anche soltanto iniziando daIIa prima classe in vista del completamento, quindi l’errore della PA. è di diritto, frutto di eccesso di potere e contraddittorio con le sue stesse direttive e statuizioni ministeriali e normative di cui:

– al DECRETO N.83 DEL 10 OTTOBRE 2008, che riconosce la possibilità di sdoppiamento sia per le nuove classi iniziali, sia per le classi intermedie e sia per le classi terminali;

– all’art. 1, co. 4, lett. F) della legge 62 del 2000 ed art.1, comma 8, del D.M. 267/2007 (suIIa parità scolastica) che consentono in questi termini lo status paritario di una singola classe;

– alla CM. 31/03 prescrivente che in caso di parità preesistente per un indirizzo – come è nel caso di specie- la possibilità di attivare un altro corso o classe e in attesa del riconoscimento della parità…. tale classe o corso si considera paritario.. (punto 3.6 "Corsi e classi" della C.M. 31/03)

Negare questa possibilità, sarebbe anche in contrasto con l’art. 33; co. 4, della Costituzione che riconosce alle scuole paritarie e ai loro alunni la seguente garanzia costituzionale: "La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali."

La lettura della disposizione non può essere rigida e considerare la scuola paritaria e i suoi alunni su due binari paralleli, anzi proprio l’art.33, co.4 rappresenta la sintesi delle loro posizioni e il loro punto d’incontro. La legge n.62/2000 infatti, dopo aver specificamente indicato i vari requisiti, consente loro di esercitare in PIENA LIBERTA" l’attività scolastica per mirare ad offerta formativa equipollente, che vuoI dire: accettare anche obbligatoriamente le domande DI ISCRIZIONE (vedi art.1 della L. 62/00); insegnare secondo i nuovi principi dell’autonomia scolastica, concludere contratti di lavoro e assumere docenti secondo i contratti nazionali di lavoro, personale non docente, avere strutture regolari autorizzate da vigili del fuoco, asl etc.

A ciò si aggiunga la economia di scala che si realizza – in coerenza con l’art. 41 della Costituzione – per la società che gestisce la scuola paritaria.

6) VIOLAZIONE DELL’ART. 1, COMMA 6, LEGGE 62/2000, ART. 2.3. DELLA CIRCOLARE MINISTERIALE N. 31/2003, DELL’ART. 7 DELLA LEGGE N. 241/90, art.10 bis LEGGE 241/90 per come modificata dalla L. n.15/2005; DEGLI ARTT. 27 E 97 COSTITUZIONE ED ECCESSO DI POTERE. (carenza di motivazione).

A quanto detto si aggiunge anche la totale ASSENZA DI MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI IMPUGNATI, che ha fatto si che l’Amministrazione abbia respinto la richiesta di riconoscimento di regime paritario anche per la classe in questione senza esaminare e verificare la documentazione offerta dal ricorrente Istituto, con particolare riferimento agli schemi di funzionamento inviati dal ricorrente, da cui, peraltro, emerge chiaramente la forte richiesta di iscrizione e l’incremento delle domande che giustifica l’attivazione dei nuovi corsi CONSIDERATA L’IMPOSSIBILITA" DI ACCORPARE GLI ISCRITTI SUCCESSIVI NELLE CLASSI GIA" COSTITUITE PER NON INTACCARE IL GIUSTO RAPPORTO TRA ALUNNI E CAPIENZA DELLA CLASSE.

Questo ha ulteriormente minato la possibilità di difesa.

Non vi è dubbio che le inesistenti motivazioni e gli altrettanto inesistenti riferimenti legislativi non possono essere considerati quale motivazione minimamente valida di un provvedimento così gravoso per una serie di soggetti (scuola, lavoratori della scuola, studenti e famiglie degli studenti).

Del resto tutto il sistema di riconoscimento/revoca della parità scolastica è strettamente ed esclusivamente legato alla verifica attuale in capo alla scuola dei requisiti di parità di cui alla L.62/00 cd alla C.M.31/03 che, regolando la procedura, impongono la concessione di termini ed altre garanzie di difesa finalizzate appunto alla possibilità di disporre gli adeguamenti e regolarizzare le disfunzioni.

La L. 62/2000 ha comportato l’assenza di discrezionalità nella pubblica Amministrazione nella stessa emissione del provvedimento di parità, ed un mero obbligo di controllo oggettivo dei diversi Istituti. In poco, l’amministrazione nel momento stesso dell’emissione del provvedimento di parità, non è titolare di un potere discrezionale, ma deve limitarsi alla constatazione dei requisiti voluti dalla legge ed è obbligata a riconoscere tale status che corrisponde ad un principio costituzionale, quello della libertà di insegnamento e della libertà di impresa.

7) VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DELL’AFFIDAMENTO (ART. l, COMMA l, LEGGE 241/90).

A ciò si aggiunga che l’AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA del Lazio ha anche violato la propria reiterata e consolidata prassi amministrativa maturata in relazione ai medesimi precedenti riconoscimenti di classe collaterali.

Difatti, la prassi dell’USR del Lazio immediatamente precedente le vicende di cui alla presente controversia è sempre stata nel senso di consentire la costituzione di classi collaterali ad orario pomeridiano o serale per studenti lavoratori o per ipotesi di corsi speciali, al fine di conciliare le esigenze di speditezza ed efficienza dell’azione amministrativa con riduzione della spesa pubblica e a salvaguardia degli interessi legittimi dei privati e delle imprese.

Tale prassi amministrativa si è fondata su precisi precedenti di codesto On.le TAR e del Consiglio di Stato.

Il comportamento tenuto dall’Amministrazione nel caso di specie ha, dunque, oltre che violato le norme di legge già richiamate, senz’altro leso il legittimo affidamento dei ricorrenti che è divenuto a seguito delle modifiche apportate dalla legge 15/2005 un principio vincolante per l’azione amministrativa costituendo esso stesso un principio dell’ordinamento comunitario.

Si costituisce in giudizio l’Amministrazione resistente che nel controdedurre alle censure di gravame, chiede la reiezione del ricorso.

Motivi della decisione

Fondate ed assorbenti si rivelano le doglianze contenute nel primo secondo terzo quarto quinto sesto motivo di gravame con le quali parte ricorrente lamenta la violazione di legge di cui all’art.1, comma 4 L. 10.3.2000, n. 62 del D.M..11.07, n. 267 e del Decreto Ministro dell’Istruzione n. 83 del 10.10.2008 e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, restando assorbita ogni ulteriore doglianza.

Ed invero osserva il Collegio che già questa Sezione con ordinanza n. 00272/2011 ha avuto modo di evidenziare la "carenza di adeguata motivazione dell’atto impugnato tenuto conto della "….sussistenza, di una ragionevole previsione sull’esito favorevole del ricorso le cui doglianze appaiono assistite dal "fumus boni juris…":e ciò in quanto, dagli atti di causa risulta, infatti che l’Amministrazione non abbia con la dovuta contezza valutato le circostanze fattuali e le ragioni giuridiche indicate nell’istanza che ha portato al disposto diniego di cui si controverte.

Il disposto diniego risulta pertanto con conforme alle prescrizioni normative e regolamentari suindicate ed adottato con surrettizia motivazione pressocchè inesistente e denotante grave carenza istruttoria anche sull’accertamento dei presupposti di fatto sussistenti all’atto dell’adozione del provvedimento impugnato, con la conseguenza che sfugge l’iter logico seguito dall’Amministrazione nel negare la parità richiesta: ciò in aperta violazione delle disposizioni di legge.

Né il mero richiamo, nel provvedimento impugnato, del D.M. n. 83/2008 costituisce idoneo elemento di supporto motivazionale, tenuto conto delle stesse disposizioni ivi contenute e di seguito riportate, che dispongono e riconoscono la possibilità di sdoppiamento sia per le nuove classi iniziali, sia per le classi intermedie e sia per le classi terminali:

"4.6 In caso di sdoppiamento di un corso già funzionante il gestore deve chiedere entro 30 giorni dal term.ine ultimo annualmente stabilito per l’iscrizione degli alunni, l’estensione del riconoscimento della parità alle nuove classi, a partire dalla prima e con prospettiva di completamento del corso. Ai sensi dell’art. 1, comma 4, della legge lO marzo 2000, n.62, la parità, di norma, non può essere riconosciuta a singole classi.

4.7 Per le classi iniziali e intermedie il gestore può chiedere all’Ufficio Scolastico Regionale entro l’avvio dell’ anno scolastico, l’autorizzazione allo sdoppiamento di classi dovuto a nuovi iscritti o a ripetenti che non possono essere integrati nelle classi esistenti.

4.8 Per le classi terminali della scuola secondaria superiore il gestore può chiedere, con adeguata motivazione, entro l’avvio dell’anno scolastico, l’autorizzazione al Direttore scolastico regionale per una sola classe collaterale qualora gli studenti neo iscritti non possano essere inseriti nelle classi esistenti… ".

Senza contare che lo stesso D.M, 83/2008, all’art. 4 rubricato "Il Riconoscimento della Parità" prevede al punto 3 che: "Per le scuole già paritarie, in caso di istituzione di corsi di indirizzi diversi o di corsi serali o di cessazione di corsi il Direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale emana apposito decreto modificativo di quello originario".

Con ciò dimostrando l’Amministrazione di avere erroneamente interpretato il citato D.M. n. 83/2008 omettendo la dovuta considerazione della condizione di lavoratori degli iscritti ai corsi pomeridiani e serali (cfr. Consiglio di Stato, sez, VI, ordinanze n. 6364/07, n. 924, n. 925 e n. 939 del 19/02/2008, secondo il quale: "….Ritenuto che il disposto di cui all’art. l, comma 4, lett. f), della legge n. 62/2000 nella stessa prassi amministrativa (v. C.M. n. 31 del 18 marzo 2003, punto 36; nota prot. 245/UffI, 20 febbraio 2002, della D.C. organizzazione servizi territorioarea parità scolastica; nota Capo Gabinetto Ministro PI. 26 gennaio 2007, n. 1433/FR) è interpretato nel senso di non precludere l’istituzione di classi terminali allorché ricorrano determinate condizioni giustificative indicate negli atti anzidetti con particolare riferimento agli studenti lavoratori;… che la disciplina normativa anzidetta non sembra precludere, allorché ne ricorrano condizioni verificabili ai sensi di quanto precede, la possibilità di istituire eccezionalmente ulteriori classi singole in presenza delle pressanti esigenze degli studenti lavoratori..").

Peraltro l’amministrazione non opera alcun riferimento ad eventuale istruttoria svolta, né tanto meno ad una eventuale comparazione tra gli interessi privati e quelli pubblici coinvolti, limitandosi ad una mera contestazione formale circa l’asserita impossibilità di costituzione (richiamando mere norme regolamentari e giurisprudenza in conferente col caso di specie) ed omettendo qualsiasi considerazione sulla circostanza che successivamente alla data del 1 settembre 2010 non è affatto vietato accogliere nuove iscrizioni e costituire nuove classi specie se serali per studenti lavoratori in assenza di strutture statali presenti nel territorio.

Sotto tali profili, giustamente la difesa di parte ricorrente evidenzia come, sulla base dell’intero sistema normativo (art. 1, comma 4, legge 62/2000, D.M. n.267/2007; ART. 2.3. della C.M. n. 31/2003; D.P.R. n 275/99) che consente espressamente l’attivazione di un nuovo corso addirittura riconoscendo la parità anche soltanto iniziando dalla prima classe in vista del completamento, l’Amministrazione sia incorso in errore di diritto, contraddicendosi con le sue stesse direttive,e statuizioni ministeriali e normative.

E la necessità di una congrua ed esaustiva motivazione è ancor più pregnante in un procedimento ex lege n. 62/2000 caratterizzato dall’assenza di discrezionalità nell’ "an", nel "quid" e nel "quo modo" del provvedimento di parità, risolventesi in un atto autorizzatorio di mero accertamento di controllo oggettivo dei diversi Istituti e dei requisiti voluti dalla legge in presenza dei quali l’Amministrazione è obbligata a riconoscere tale status che corrisponde ad un principio costituzionale, quello della libertà di insegnamento e della libertà di impresa.

Sulla base delle suesposte considerazioni il ricorso va accolto e per l’effetto l’atto di diniego impugnato va annullato per violazione di legge di cui all’art.1, comma 4 L. 10.3.2000, n. 62 del D.M..11.07, n. 267 e del Decreto Ministro dell’Istruzione n. 83 del 10.10.2008 e per eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione,.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio, ivi compresi diritti ed onorari.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis) definitivamente pronunciandosi sul ricorso indicato in epigrafe lo accoglie e per l’effetto annulla l’atto impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-07-2011) 01-08-2011, n. 30541

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 14 dicembre 2010 il Tribunale di Catanzaro, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha respinto la richiesta di riesame proposta da G.F. detto Gino avverso l’ordinanza del 19 novembre 2010, con la quale il G.I.P. del Tribunale di Cosenza aveva applicato nei suoi confronti la misura della custodia cautelare in carcere, siccome gravemente indiziato:

– del delitto di cui al capo A) della rubrica (omicidio aggravato in danno di S.N., colpito con due colpi esplosi con un fucile da caccia calibro 12, che lo avevano attinto all’arto inferiore sinistro e nella parte alta dell’emitorace posteriore sinistro, cagionandone il decesso quasi immediato);

– del delitto di cui al capo B) della rubrica (illegale porto in luogo pubblico del fucile da caccia di cui sopra, con l’aggravante di avere commesso il fatto per eseguire il delitto che precede).

2. L’omicidio è avvenuto alle ore 23,40 circa del 26 settembre 2008 in località Pietremerine del Comune di Acri (CS); la vittima era stata colpita dall’esterno con due colpi sparati con un fucile da caccia calibro 12, mentre si trovava in piedi nella cucina della sua abitazione, posta al piano terra.

Le indagini si erano rivelate fin dall’inizio particolarmente difficili, siccome ostacolate da un fitto clima di omertà, pervicacemente inteso a proteggere il colpevole, essendo il fatto avvenuto in un piccolo centro agricolo, in un contesto fortemente condizionato da legami di parentela e di personali frequentazioni; e la vittima era notoriamente una persona che creava problemi, usando egli commettere piccoli furti in danno dei proprietari dei fondi finitimi, furti che più volte avevano creato difficoltà ai suoi più stretti parenti, presso i quali i derubati si erano più volte lamentati; ed il clima di omertà aveva coinvolto persino il maresciallo dei carabinieri G.G., vice comandante della stazione di carabinieri di Acri, avendo il medesimo inspiegabilmente restituito all’indagato, il giorno successivo al sequestro, uno dei tre fucili da caccia, pienamente compatibile con l’arma usata per il delitto, sequestratogli in quanto era l’unico dei tre in suo possesso ad essere stato di recente accuratamente pulito.

2. Il Tribunale ha rilevato la sussistenza a carico dell’indagato dei seguenti indizi di colpevolezza:

– le dichiarazioni rese da P.R., madre della vittima e testimone oculare del delitto, la quale il 4 dicembre 2009, dopo circa un anno dai fatti, aveva deciso di collaborare con gli inquirenti ed aveva indicato nell’indagato l’autore dell’omicidio;

– le dichiarazioni rese da S.E., padre della vittima, il 4 dicembre 2009; egli, sebbene non aveva assistito all’omicidio, perchè in quel momento dormiva, aveva ricevuto nell’immediatezza dei fatti le confidenze della moglie, che aveva indicato nell’indagato l’autore dell’uccisione del figlio; ed il Tribunale ha dato atto dell’evidente errore in cui il teste era incorso, per aver indicato l’indagato come S.E., quando in realtà egli intendeva riferirsi proprio all’indagato, essendo quest’ultimo l’unico della sua cerchia di conoscenze a lavorare presso il Comune di Acri;

– le dichiarazioni rese da F.G., nipote della vittima siccome figlio della sorella S.D., il quale, sentito il 4 dicembre 2009, aveva riferito che i nonni fossero a conoscenza dell’identità dell’assassino, identificato nell’odierno indagato, altresì noto col nome di G., che aveva litigato con la vittima per il furto di legna e castagne sul suo terreno;

– l’intercettazione fra presenti avvenuta all’interno dell’abitazione di F.F. e S.D., rispettivamente cognato e sorella della vittima, il 5 novembre 2009, nonchè la conversazione ambientale captata all’interno della sala d’attesa del Comando provinciale dei carabinieri di Cosenza fra M.P., C. N., S.G., S.P. e P.N., nel corso delle quali era stato espressamente indicato dai soggetti intercettati l’indagato, detto "Gino maresciallo", quale autore del gravissimo fatto di sangue; ed al riguardo il Tribunale ha ritenuto che non fosse ravvisabile nei discorsi captati alcun intento calunnatorio, tale da indurre i soggetti a dichiarare il falso;

– la circostanza che l’indagato avesse la disponibilità di un’arma perfettamente compatibile con quella usata per uccidere S. N.; e tale arma, come in precedenza riferito, era risultata perfettamente ripulita, a differenza delle altre due pure in possesso dell’indagato;

– la circostanza che, dai tabulati telefonici dell’utenza in uso all’indagato, era emerso che egli si trovasse, durante l’ora dell’omicidio, nel Comune di Acri. Il Tribunale ha ritenuto che nessun elemento a favore dell’indagato potesse desumersi dal fatto che in nessuna intercettazione ambientale, in cui egli era stato coinvolto, erano emersi elementi a suo carico, avendo ritenuto che ciò si fosse verificato in quanto egli sapeva di essere intercettato, tanto conoscendo dalle informazioni ricevute dal maresciallo dei carabinieri G., con cui era in contatto.

Il Tribunale ha infine ritenuto non idonee ad inficiare il quadro indiziario emerso a carico dell’indagato le dichiarazioni rese dai testi P.A., G.A., G.P. ed A.R., sentiti dai suoi difensori ai sensi degli artt. 391 bis e segg. cod. proc. pen., sia perchè non più attendibili degli altri testi sentiti dagli inquirenti, sia perchè smentite dalla univoche emergenze investigative.

3. Il Tribunale ha poi ritenuto sussistere a carico dell’indagato gravi esigenze cautelari, tali da far fondatamente ritenere che l’indagato, ove rimesso in libertà, avrebbe potuto commettere altri gravi delitti della stessa specie, tenuto conto delle concrete modalità del fatto, non avendo il prevenuto esitato a ricorrere alla violenza ed alla minaccia anche avvalendosi di un’arma; poteva pertanto presumersi la sussistenza di un’inclinazione a delinquere, idonea a formulare una prognosi cautelare a lui sfavorevole, siccome indicativa di una sua significativa capacità a delinquere.

Ha poi fatto riferimento alla presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, che imponeva l’applicazione nei suoi confronti della misura custodiale in carcere, tenuto conto del tipo di reato ascrittogli, non essendo stati forniti dalla sua difesa elementi dai quali risultassero insussistenti le esigenze cautelari.

4. Avverso detto provvedimento del Tribunale del riesame di Catanzaro ha proposto ricorso per cassazione G.F. per il tramite dei suoi difensori, che hanno dedotto due motivi di ricorso – Col primo motivo lamentano violazione di legge circa la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei suoi confronti, in quanto gli unici elementi a suo carico erano costituiti dalle dichiarazioni rese dalla madre della vittima P.R., ritenute dal Tribunale attendibili e credibili, anche se rese a distanza di circa un anno dai fatti; al contrario non era stato tenuto conto che si trattava di teste dalle limitate capacità di analisi di percezione della realtà circostante, in ragione dello stato confusionale in cui la stessa versava per patologia psichiatrica; la stessa invero, sentita subito dopo il fatto, aveva dichiarato di non sapere nulla di quanto accaduto a suo figlio, il che era probabile, atteso che il delitto si era svolto al buio, in quanto era spenta la lampadina esterna ad uso domestico, sostitutiva della mancata illuminazione pubblica; ed anche se fosse stata presente tale luce esterna, la teste ben difficilmente avrebbe potuto percepire le fattezze dell’omicida; inoltre la teste aveva dapprima riferito di avere visto esso ricorrente in compagnia dei due figli, A. e P., poi in compagnia del solo figlio più basso, presumibilmente A.; ed al riguardo il P.M., in sede di incidente probatorio, aveva insistito nel ritenere che la teste avesse confuso la sequenza temporale degli eventi, in quanto i fratelli G. erano stati presenti nel pomeriggio e non la sera del giorno dell’omicidio.

Erroneamente poi non era stato poi ritenuto credibile l’alibi fornito ad esso ricorrente da sua moglie A.R., nè quanto riferito dal teste P.A..

Le risultanze delle intercettazioni ambientali e telefoniche erano poi da ritenere inficiate dalla circostanza che due sottufficiali dei carabinieri, il maresciallo G.G. ed il brigadiere T., usavano informare gli interessati delle intercettazioni in corso.

Col secondo motivo lamentano violazione di legge e motivazione carente, nella parte in cui il provvedimento impugnato aveva ritenuto la sussistenza di concreto pericolo di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio; in particolare il quadro indiziario era da ritenere fortemente attenuato rispetto al parametro della gravità di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3; non era stato tenuto conto che trattavasi di persona con famiglia, impiegato comunale, incensurato, come tale non definibile nè socialmente pericoloso, nè incline a delinquere; neppure le esigenze cautelari potevano ritenersi collegate alla necessità di tutelare la genuinità della prova, atteso che l’impenetrabile muro di omertà, di cui aveva parlato il Tribunale, continuava a permanere indipendentemente da ogni possibile sua ingerenza; ed una misura meno afflittiva, quale quella degli arresti domiciliari, avrebbe perfettamente sopperito all’esigenza di tutelare qualsiasi forma di inquinamento probatorio e di pericolo di reiterazione del reato.

5. Con memoria depositata il 4 luglio 2011, i difensori del ricorrente hanno ulteriormente sviluppato i motivi di ricorso di cui sopra, insistendo in particolare sul tema dell’inattendibilità del principale teste d’accusa, P.R., avendone messo in rilievo le sue compromesse capacità mentali, per essere stata essa più volte ricoverata per disturbi mentali, ed essendo stata dichiarata affetta da depressione involutiva.

Hanno altresì lamentato che il provvedimento impugnato non aveva fatto alcun riferimento all’intercettazione ambientale dell’11 maggio 2009, avvenuta presso l’abitazione della famiglia della vittima, dalla quale non erano emersi elementi indiziari a carico del ricorrente.

Motivi della decisione

1. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da G. F., avente ad oggetto l’insussistenza, a suo carico, di validi indizi di colpevolezza, tali da giustificare la misura custodiate impugnata.

2. Il provvedimento impugnato ha invero adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza a carico della ricorrente di gravi indizi di colpevolezza per i reati a lui contestati, tanto avendo desunto:

– dalle dichiarazioni rese da P.R., madre della vittima e testimone oculare del delitto, la quale il 4 dicembre 2009, dopo circa un anno dai fatti, aveva deciso di collaborare con gli organi inquirenti ed aveva indicato nell’indagato l’autore dell’omicidio;

– dalle dichiarazioni rese da S.E., padre della vittima, in data 4 dicembre 2009; egli aveva ricevuto nell’immediatezza dei fatti le confidenze della moglie, che aveva indicato nell’indagato l’autore dell’uccisione del figlio; ed il Tribunale ha dato atto dell’evidente errore in cui il teste era incorso, avendo indicato l’indagato come S.E., quando in realtà egli intendeva riferirsi proprio all’indagato, essendo quest’ultimo l’unico della sua cerchia di conoscenze a lavorare presso il Comune di Acri;

– dalle dichiarazioni rese da F.G., nipote della vittima siccome figlio della sorella S.D., il quale, sentito il 4 dicembre 2009, aveva riferito che i nonni fossero a conoscenza dell’identità dell’assassino, identificato nell’odierno indagato, altresì noto col nome di Gino, che aveva litigato con la vittima per il furto di legna e castagne sul suo terreno;

– dall’intercettazione fra presenti, avvenuta all’interno dell’abitazione di F.F. e S.D., rispettivamente cognato e sorella della vittima, il 5 novembre 2009, nonchè dalla conversazione ambientale captata all’interno della sala d’attesa del Comando provinciale dei carabinieri di Cosenza fra M. P., C.N., S.G., S.P. e P.N., nel corso delle quali era stato espressamente indicato dai soggetti intercettati l’indagato, detto " G. maresciallo", quale autore del gravissimo fatto di sangue; ed al riguardo il Tribunale ha ritenuto che non fosse ravvisabile nei discorsi captati alcun intento calunnatorio, tale da indurre i soggetti a dichiarare il falso;

– dalla circostanza che l’indagato avesse la disponibilità di un’arma perfettamente compatibile con quella usata per il delitto; e l’arma, prima sequestrata, poi inspiegabilmente restituita al ricorrente, come in precedenza riferito, era risultata perfettamente ripulita, a differenza delle altre due, pure in possesso dell’indagato;

– dalla circostanza che, dai tabulati telefonici dell’utenza in uso all’indagato, era emerso che egli si trovasse, durante l’ora dell’omicidio, proprio nel Comune di Acri.

3. Nella presente sede di legittimità non è dato invero riesaminare nel merito gli indizi posti a carico del ricorrente dai giudici di merito, onde accertare se gli stessi siano o meno validi in sè e preferibili rispetto ad altri, pure utilizzabili ed idonei a fornire una diversa ricostruzione dei fatti, quanto piuttosto accertare se gli indizi fatti propri dai giudici di merito siano sorretti da una motivazione accettabile sul piano della completezza, della logica e della non contraddizione (cfr. Cass. 4A 3.5.07 n. 22500, rv. 237012;

Cass. 6A 15.11.05 n. 20474, rv. 225245); e, sotto tale aspetto, ritiene questa Corte che gli indizi ritenuti idonei dal Tribunale del riesame di Catanzaro per confermare l’ordinanza cautelare impugnata sono adeguati e rispondenti ai criteri di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2. 4. Le argomentazioni svolte dal ricorrente per inficiare gli indizi di colpevolezza anzidetti, particolarmente intese a mettere in rilievo l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla teste P.R., madre della vittima, non sono ammissibili nella presente sede di legittimità, in quanto essenzialmente intese a fornire una diversa lettura alternativa dei fatti; d’altra parte il Tribunale risulta avere adeguatamente motivato in ordine alle imprecisioni riscontrate nel narrato della teste, avendo rilevato che non inficiasse la complessiva attendibilità della teste il fatto che la stessa avesse sovrapposto nella sua memoria episodi avvenuti in momenti diversi, con specifico riferimento alla circostanza se l’indagato fosse stato o meno in compagnia dei figli al momento dell’omicidio. L’ordinanza impugnata, con motivazione incensurabile nella presente sede, siccome conforme ai canoni della logica e della non contraddizione, ha invero rappresentato un quadro indiziario a carico del ricorrente che non solo ha tenuto solo delle dichiarazioni rese dalla teste P.R., ma ha valorizzato anche numerosi altri indizi, sopra descritti, i quali, valutati nel loro assieme, assumono una significativa valenza indiziaria, tale da giustificare l’adozione del provvedimento impugnato; va inoltre rilevato come il provvedimento impugnato abbia indicato i validi motivi per i quali non ha ritenuto di attribuire rilevanza alle deposizioni testimoniali raccolte dal difensore del ricorrente ai sensi degli artt. 391 bis e segg. cod. proc. pen..

5. E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta violazione di legge e carenza di motivazione, per avere il provvedimento impugnato ritenuto la sussistenza di gravi esigenze cautelari nei suoi confronti, tali da giustificare la custodia cautelare in carcere disposta nei suoi confronti.

5,Va infatti rilevato che il provvedimento impugnato non ha fatto solo riferimento alla presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, tenuto conto del tipo di reato ascrittogli, presunzione da ritenere peraltro venuta meno, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 164 del 2011, la quale ha ritenuto costituzionalmente illegittima la norma anzidetta, nella parte in cui non fa salva altresì l’ipotesi di acquisizione di elementi specifici, relativi al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misura.

Il provvedimento impugnato invero, oltre a far riferimento alla presunzione anzidetta, ha altresì offerto una motivazione completa ed articolata, incensurabile nella presente sede di legittimità, siccome conforme ai canoni della logica e della non contraddizione, circa la sussistenza di esigenze cautelari idonee a giustificare, ai sensi dell’art. 274 c.p.p., lett. c), la misura cautelare adottata, avendo fatto riferimento al concreto pericolo che il ricorrente potesse reiterare la condotta criminosa, ciò avendo desunto da elementi specifici, inerenti al fatto, alle sue motivazioni ed alla personalità del soggetto, ritenuto come propenso all’inosservanza degli obblighi connessi ad una diversa misura (cfr. Cass. Sez. 1 n. 30561 del 15/07/2010 dep. il 30/07/2010, imp. Micelli, Rv. 248322).

Il Tribunale ha invero fatto ampio riferimento:

– alle gravissime modalità con cui l’omicidio era avvenuto, caratterizzato dall’uso di un’arma da fuoco e dall’essere stato commesso mediante un agguato teso in ora notturna;

– all’inesistenza di validi motivi, idonei a giustificare un così efferato comportamento;

– alla circostanza che l’omicidio fosse rappresentativo di una personalità incline alla violenza ed incapace di contenersi, con pressante e concreto pericolo che il ricorrente potesse ripetere simili comportamenti delittuosi con l’uso di armi.

6. Il ricorso proposta da G.F. va pertanto respinto, con sua condanna, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

7. Si provveda all’adempimento di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 30-09-2011, n. 1346

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Rilevato:

– che con provvedimento 31 maggio 2011 prot. 155/2011 cat 6F/P.A.S./cf il Questore della Provincia di Brescia sospendeva nei confronti del ricorrente la licenza di porto d’armi per uso caccia in quanto lo stesso, già condannato con sentenza GUP Tribunale Brescia 30 ottobre 1997 irr. il successivo 28 novembre per i reati di resistenza a P.U., lesioni personali, evasione e violazione delle norme sulla caccia, era stato il 2 febbraio 2010 denunziato per varie fattispecie di reato sempre in materia di caccia (doc. 1 ricorrente, copia provvedimento impugnato);

– che il ricorrente ha impugnato tale provvedimento con ricorso principale articolato in due censure riconducibili ad un unico motivo di violazione degli artt. 11 e 43 TULPS ovvero di difetto di motivazione, sostenendo in sintesi che i fatti descritti sarebbero inidonei a sorreggere la determinazione presa dall’Autorità;

– che l’amministrazione, costituitasi con atto 1 settembre 2011, ha chiesto invece la reiezione del ricorso;

– che il ricorso è infondato e va respinto. Così come ritiene costante giurisprudenza, anche di questo TAR -si vedano per tutte C.d.S. sez. VI 14 febbraio 2007 n°616 e TAR Lombardia Brescia 8 aprile 2009 n°1323; nello stesso senso peraltro già TAR Lombardia Brescia 13 giugno 1994 n°313- la detenzione di armi, intesa in senso ampio, non corrisponde in alcun modo ad un diritto del cittadino e per valutare la sua affidabilità in proposito l’amministrazione è titolare di ampia discrezionalità, potendo apprezzare qualsiasi circostanza significativa. Ciò vale sia ai fini della revoca del titolo, sia ai fini della sospensione di cui si ragiona, sempre possibile in forza della norma generale dell’art. 10 TULPS: sul punto, si veda da ultimo T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, sez. I 8 luglio 2010 n°169. Fra tali circostanze, indubbiamente si annoverano i pregressi pregiudizi penali, anche per reati successivamente estinti, in quanto essi rilevano come fatti storici dai quali ben può desumersi, in relazione al caso concreto, una inaffidabilità del soggetto, e lo stesso può affermarsi anche quanto alle denunce, come quella valorizzata nel caso di specie, per lo meno allorquando l’interessato, come qui avvenuto, non neghi il fatto storico che l’ha originata. Ciò posto, ad avviso del Collegio, nel caso di specie l’apprezzamento negativo formulato dalla Questura nel provvedimento di che trattasi appare corretto e congruo, dato che i fatti evidenziati nel provvedimento, anche a comune apprezzamento, sono strettamente collegati ad un abuso dell’arma, che è strumento dell’esercizio venatorio;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte ricorrente a rifondere alla amministrazione intimata le spese del giudizio, spese che liquida in Euro 1.500 oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 24-10-2011, n. 2529 Armi da fuoco e da sparo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente è titolare di un permesso di porto di fucile uso caccia rilasciato in data 23 settembre 2003.

Con provvedimento del 4 aprile 2006 il Questore della Provincia di Milano decretava la revoca del suddetto titolo.

L’interessato presentava quindi ricorso giurisdizionale dinanzi a questo Tribunale il quale, dapprima, accoglieva l’istanza cautelare e, successivamente, con sentenza n. 1759/10 respingeva il gravame.

L’autorità amministrativa, dopo l’emissione dell’istanza cautelare, ritirava il provvedimento di revoca. Successivamente, dopo l’emissione della sentenza di primo grado (come detto di rigetto del ricorso presentato), con provvedimento in data 6 aprile 2011, revocava nuovamente il titolo.

Avverso quest’ultimo provvedimento è diretto il ricorso in esame.

La Sezione, con ordinanza n. 1432 del 27 maggio 2011, rigettava l’istanza cautelare, ritenendo che il nuovo provvedimento di revoca non fosse altro che un atto di mera esecuzione della sentenza di rigetto del precedente gravame.

Senonché il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4828 del 26 agosto 2011, resa in sede di giudizio d’appello avverso la precitata sentenza n. 1759/2010, ha esplicitamente statuito che il nuovo provvedimento di revoca non può considerarsi quale atto di mera esecuzione della pronuncia di primo grado e quindi quale mera conferma del precedente provvedimento di revoca, avendo l’autorità amministrativa compiuto nuove valutazioni ed avendolo quindi corredato di una aggiornata motivazione (per questa ragione il Consiglio di Stato ha dichiarato l’appello improcedibile).

Alla luce delle argomentazioni contenute nella sopravvenuta sentenza del giudice d’appello, il ricorrente ha proposto nuova istanza cautelare, trattata nella camera di consiglio del 13 ottobre 2011.

Ritiene il Collegio che il giudizio possa essere definito con sentenza in forma semplificata, emessa ai sensi dell’art. 60 c.p.a., adottata in esito alla camera di consiglio per la trattazione dell’istanza cautelare, stante l’integrità del contraddittorio, l’avvenuta esaustiva trattazione delle tematiche oggetto di giudizio, nonché la mancata enunciazione di osservazioni oppositive delle parti, rese edotte dal Presidente del Collegio di tale eventualità.

Innanzitutto, la Sezione deve prendere atto delle statuizioni contenute nella sentenza del Consiglio di Stato n. 4828 del 26 agosto 2011 nella quale, come visto, smentendosi le conclusioni cui era giunto questo giudice, si è affermato che il nuovo atto di revoca non costituisce mera conferma del precedente atto avente il medesimo contenuto dispositivo, ma costituisce nuovo esercizio di potere amministrativo, avendo l’autorità compiuto nuove valutazioni.

Ciò premesso, non possono a questo punto non condividersi le doglianze sollevate dal ricorrente, il quale lamenta che il provvedimento da ultimo emanato contiene una motivazione del tutto inadeguata.

Invero il nuovo atto, oltre a far riferimento al rigetto del ricorso proposto contro il precedente atto di revoca (riferimento che, alla luce della sentenza del giudice d’appello, è privo di valenza), si limita ad affermare che gli interessi ed i motivi a base delle vicissitudini che hanno fatto insorgere in passato contrasti fra la famiglia del ricorrente e quella dei suoi parenti (contrasti sfociati in un episodio di violenza posto a fondamento del primo atto di revoca) continuano a far nutrire dubbi circa la completa affidabilità del ricorrente medesimo.

Il Collegio sa bene che, per consolidata opinione giurisprudenziale, l’autorità amministrativa gode di ampia discrezionalità in materia di titoli di polizia concernenti le armi, e che per disporre il diniego del rilascio (o la revoca) della licenza è sufficiente il semplice dubbio circa la completa affidabilità dell’interessato in ordine al corretto uso delle armi medesime; tuttavia è anche necessario che tale dubbio sia confortato da idonee circostanze di fatto tali da far ragionevolmente ritenere non completamente affidabile il soggetto che richiede il rilascio o il rinnovo del titolo.

Nel caso concreto, come visto, l’autorità amministrativa, nel corpo motivazionale del provvedimento impugnato, si limita a far riferimento a passati contrasti fra la famiglia del ricorrente e quella dei suoi parenti senza precisare perché tali accadimenti sarebbero ancora idonei a far dubitare circa la sua completa affidabilità.

Tale spiegazione viene fornita nella nota del Commissariato di Cinisello Balsamo dell’1 gennaio 2010, depositata in giudizio dalla difesa erariale, dalla quale emerge che da accertamenti di polizia risulta che da tempo non vi sono rapporti fra la famiglia del ricorrente e quella dei suoi parenti: da tale circostanza l’autorità amministrativa desume la persistenza del conflitto.

Ritiene tuttavia il Collegio che questa circostanza sia di per sé inidonea a suffragare le conclusioni cui è giunta l’autorità, ben potendo la mancata frequentazione delle famiglie dipendere da reciproca indifferenza e non già dalla persistenze sussistenza di contrasti.

Tale conclusione è suffragata dal fatto che i due procedimenti penali originati dal suindicato episodio di violenza (uno dei quali vedeva il ricorrente quale parte lesa) si sono entrambi conclusi per rimessione delle querele: ciò sembrerebbe invero dimostrare che le due parti abbiano alla fine deciso di stemperare le tensioni (anche interrompendo le reciproche frequentazioni).

Per queste ragioni si deve escludere che i rilievi contenuti nel provvedimento impugnato siano idonei a giustificare i dubbi di affidabilità nutriti dall’amministrazione procedente; e quindi debbono condividersi le doglianze sollevate da parte ricorrente.

Il ricorso deve essere quindi accolto.

La particolarità della vicenda induce il collegio a disporre la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Spese compensate. Resta fermo a carico della parte soccombente l’onere di rimborso del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 6 bis1, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiunto dalla lettera e) del comma 35bis dell’art. 2, D.L. 13 agosto 2011, n. 138, nel testo integrato dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.