Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-07-2012, n. 12677

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 245/5/07, depositata il 3.10.07 la Commissione Tributaria Regionale del Lazio rigettava l’appello proposto dal Comune di Roma avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla società Pubbli Roma s.r.l. avverso l’avviso di accertamento con il quale l’ente territoriale aveva richiesto alla contribuente il pagamento dell’imposta sulla pubblicità per l’anno 2003.

2. La CTR – dopo avere disatteso la questione pregiudiziale di difetto di rappresentanza processuale del Comune di Roma, sollevata dall’appellata – riteneva, nel merito, totalmente infondata la pretesa fiscale azionata con il predetto atto impositivo, sia con riferimento alla commisurazione dell’imposta in questione, operata dall’ente territoriale, all’anno solare e non ai singoli periodi espositivi, a norma del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 12, comma 2, sia con riferimento all’erronea – a suo dire – determinazione della superficie imponibile, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7.

3. Per la cassazione della sentenza della n. 245/5/07 ha proposto ricorso il Comune di Roma, affidato a tre motivi. La società resistente ha replicato con controricorso.
Motivi della decisione

1. In via pregiudiziale, osserva la Corte che la domanda di sospensione del presente giudizio e di rinvio della causa a nuovo ruolo, proposta dalla difesa della resistente Pubbli Roma s.r.l., non può trovare accoglimento.

1.1. Va rilevato, infatti, che detta istanza è fondata sul disposto della Delib. Consiglio Comunale Roma n. 31 del 2009, art. 5, a norma del quale la presentazione da parte del contribuente dell’istanza di definizione della lite, in via transattiva, mediante il pagamento di una somma il cui ammontare è determinato – in ragione del valore della controversia – dal precedente art. 3, comporta la sospensione del procedimento giuri-sdizionale in corso, in qualunque stato e grado esso sia pendente, fino alla data del 30.9.2009 (data, poi, più volte prorogata dall’ente).

L’esistenza di una fattispecie condonale, desumibile dalla delibera succitata, comporterebbe, pertanto, di per sè – a parere della difesa della società contribuente – la sussistenza del diritto della parte ad ottenere la sospensione del processo, con rinvio del presente giudizio di legittimità a nuovo ruolo.

1.2. La pretesa è infondata.

1.2.1. Va osservato, invero, che la menzionata Delib. Consiglio Comunale Roma n. 31 del 2009 risulta emanata, come si evince dal preambolo della stessa, in forza del disposto della L. n. 289 del 2009, art. 13, comma 2, che – ad avviso del Comune di Roma – consentirebbe agli enti locali territoriali di definire, ancora una volta, le liti pendenti con i contribuenti in materia di tributi comunali da tempo soppressi, sebbene tale facoltà di condono sia stata concessa dalla legge ben sette anni prima (2002) l’istituzione della definizione agevolata stabilita con la delibera comunale in esame (2009).

In virtù della predetta norma legislativa autorizzativa, l’ente territoriale ha, pertanto, concesso ai contribuenti la menzionata possibilità di definire transattivamente le vertenze ivi previste, mediante il pagamento di una determinata somma pari ad una percentuale degli importi dovuti, e di ottenere altresì la sospensione dei giudizi pendenti, onde pervenire alla definizione della lite ed alla conseguente estinzione dei giudizi stessi.

1.2.2. Ciò posto, osserva la Corte che la citata Delib. n. 31 del 2009, si palesa del tutto illegittima ed è, pertanto, certamente inidonea a fondare la richiesta di sospensione del giudizio e di rinvio della causa a nuovo ruolo, proposta – nel caso concreto dalla difesa della Pubbli Roma s.r.l..

Ed invero, va osservato al riguardo che la L. n. 289 del 2002, art. 13, al comma 1, con riferimento ai tributi propri del Comune – ovverosia quelli la cui titolarità giuridica ed il cui gettito siano integralmente attribuiti al suddetto ente (L. n. 289 del 2002, art. 13, comma 3) – consente la definizione in via amministrativa, mediante la riduzione dell’ammontare delle imposte e tasse dovute all’ente medesimo, nonchè dei relativi interessi e sanzioni, di quelle situazioni pendenti con i contribuenti che non abbiano dato luogo all’emissione di atti impositivi o a controversie in sede giurisdizionale. Sempre che – a tenore del medesimo comma 1 dell’art. 13 – nel termine fissato da ciascun ente, "i contribuenti adempiano ad obblighi tributar precedentemente in tutto o in parte non adempiuti".

Il comma 2 della norma consente, poi, all’ente territoriale di stabilire le "medesime agevolazioni di cui al comma 1" anche per i casi in cui "siano già in corso procedure di accertamento o procedimenti contenziosi in sede giurisdizionale", conseguendo – in siffatte ipotesi – alla presentazione dell’istanza di definizione da parte del contribuente, e ad a domanda del medesimo, la sospensione del procedimento giurisdizionale in corso, "in qualunque stato e grado questo sia eventualmente pendente".

1.2.3. Ebbene – come è dato desumere, in modo del tutto inequivoco, dalle disposizioni succitate – la possibilità per il contribuente di conseguire la sospensione del giudizio in corso – ipotesi ricorrente nel caso di specie – è ancorata, dalla L. n. 289 del 2002, art. 13, alla concomitante presenza di due specifici presupposti: a) che si tratti di obblighi tributari precedenti l’entrata in vigore della legge in questione; b) che, alla data di entrata in vigore della predetta legge, le procedura di accertamento o i procedimenti contenziosi in sede giurisdizionale fossero già stati instaurati.

Nè l’uno, nè l’altro dei due presupposti summenzionati è, tuttavia, da ritenersi ricorrente nel caso di specie, trattandosi di imposta sulla pubblicità per l’anno 2003 (successivo all’entrata in vigore della legge in questione), ed essendo stato – di conseguenza – il relativo contenzioso instaurato nel successivo anno 2004 (giudizio n. 18024/04), come si evince dal ricorso per cassazione del Comune di Roma. Se ne deve necessariamente inferire l’illegittimità del condono di cui alla delibera consiliare n. 31/09, poichè adottata in violazione della L. n. 289 del 2009, art. 13, che delimitava temporalmente – mediante il visto riferimento agli obblighi non adempiuti dal contribuente prima dell’entrata in vigore di detta legge, ed alla necessità che, a tale data, fossero già pendenti i procedimenti contenziosi in sede giurisdizionale – il potere dei Comuni di stabilire condoni sui tributi propri, potere non esercitabile, dunque, sine die dall’amministrazione comunale.

1.2.4. Non può revocarsi in dubbio, infatti, che le potestà concesse dalla legge alle amministrazioni locali in materia di tributi – siano esse relative all’imposizione fiscale, o piuttosto, come nella specie, all’esenzione o alla riduzione del carico tributario gravante sui contribuenti – non possono che essere esercitate nei limiti, anche temporali, imposti dalla norma primaria alle amministrazioni medesime. Le esigenze di omogeneità di funzionamento dell’intero sistema tributario, evidenziate dal disposto dell’art. 3 (uguaglianza di trattamento dei debitori di tributi diversi da quelli locali), art. 23 (riserva di legge in materia di prestazioni obbligatorie) e art. 119 Cost., comma 2 (coordinamento della finanza pubblica locale con quella nazionale), comportano, invero, la necessità che il legislatore nazionale intervenga a fissare le grandi linee di detto sistema, definendo gli spazi ed i limiti entro i quali possono essere esercitate le potestà attribuite, in materia fiscale, anche agli enti locali territoriali (cfr. C. Cost. 37/04).

Ne discende che l’esercizio di un potere in materia tributaria, da parte dell’ente locale, una volta che sia spirato il termine, previsto dalla legge statale autorizzativa, entro il quale tale potestà poteva essere esercitata, comporta la carenza del potere medesimo, e la conseguente disapplicazione, da parte del giudice ordinario, dell’atto assunto in violazione della norma attributiva della potestà esercitata nonostante il decorso del termine suindicato (Cass. S.U. 2097/75).

1.3. Nel caso concreto, poichè la L. n. 289 del 2002, art. 13, concedeva all’amministrazione comunale la potestà di adottare il solo, specifico, condono ivi previsto, temporalmente delimitato attraverso i riferimenti suesposti, l’adozione di un ulteriore condono a distanza di ben sette anni dalla normativa primaria succitata, determina l’illegittimità del condono medesimo per carenza di potere, che va dichiarata da questa Corte, anche ai sensi dell’art. 363 c.p.c..

Ne discende che la richiesta di sospensione del presente giudizio e di rinvio della causa a nuovo ruolo, proposta della difesa della Pubbli Roma s.r.l. – in quanto fondata su detto condono, adottato con la Delib. Consiliare n. 31 del 2009 – non può trovare accoglimento.

2. Sempre in via pregiudiziale, deve rilevare ancora la Corte che le questioni di rito proposte nel controricorso dalla società Pubbli Roma s.r.l., e relative all’inammissibilità dell’appello per irrituale costituzione del Comune di Roma e per la pretesa proposizione, nel giudizio di secondo grado, di questioni non tempestivamente sollevate in prime cure, non possono trovare accoglimento, poichè palesemente inammissibili.

2.1. Ed invero, va osservato, al riguardo, che la parte totalmente vittoriosa in appello è tenuta, in relazione alle domande ed eccezioni espressamente o implicitamente non accolte dal giudice di secondo grado, ed aventi ad oggetto questioni preliminari o pregiudiziali, a proporre ricorso incidentale, qualora intenda – come nel caso concreto – ottenere l’esame di dette domande ed eccezioni nel giudizio di cassazione. Non trovando – per vero – applicazione nel giudizio di legittimità l’art. 346 c.p.c., dettato per il giudizio di appello, l’esame di tali domande ed eccezioni non potrebbe essere effettuato dalla Corte per effetto della mera riproposizione delle stesse, nel controricorso, da parte del resistente (cfr. Cass. 14075/02, 6992/06, 15362/08, 4359/11).

2.2. Nel caso di specie, la pronuncia di seconde cure ha espressamente rigettato la questione pregiudiziale proposte dall’appellata Pubbli Roma s.r.l., concernente la presunta irrituale costituzione dell’appellante Comune di Roma, ed implicitamente disatteso, decidendo la causa nel merito, l’altra questione pregiudiziale, attinente alla pretesa proposizione di domande ed eccezioni nuove, per cui la riproposizione di tali questioni in cassazione, al fine di consentirne un riesame da parte della Corte nel giudizio di legittimità, sarebbe dovuta avvenire nelle forme del ricorso incidentale.

Le questioni in parola, pertanto, così come proposte, non possono che essere dichiarate inammissibili.

3. Premesso quanto precede, va rilevato che con i tre motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente, attesa la loro evidente connessione – il Comune di Roma denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 12 e 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

3.1. Si duole, invero, il ricorrente del fatto che la CTR – condividendo le argomentazioni esposte dalla Pubbli Roma s.r.l. nei due gradi del giudizio di merito – abbia ritenuto dimostrate e fondate le allegazioni della ricorrente circa l’utilizzo degli impianti pubblicitari per periodi non superiori a tre mesi, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 12, comma 2, che prevede una tariffa agevolata, ai fini della determinazione dell’imposta per la pubblicità effettuata per un arco temporale inferiore a tre mesi.

Agevolazione possibile – a detta della contribuente – anche quando si tratti, come nel caso di specie, di pubblicità diretta mediante impianti fissi, attesa la modifica del comma 3, art. 12 D.Lgs. cit., operata dalla L. n. 388 del 2000, che ha consentito, anche in tale ipotesi, l’applicazione del disposto del succitato comma 2 dell’art. 12 della medesima disposizione.

3.2. La CTR, inoltre, – a parere dell’ente territoriale – avrebbe erroneamente ritenuto, e con motivazione del tutto incongrua, che nella superficie computabile ai fini dell’imposizione, ai sensi della disposizione succitata, non dovesse essere considerata anche la cornice della relativa installazione pubblicitaria, trattandosi – a detta della contribuente, condivisa in proposito dalla CTR – di un elemento accessorio non utilizzabile quale spazio adibito, in concreto, alla pubblicità.

3.3. Le suesposte censure sono fondate e vanno accolte.

3.3.1. Dall’esame dell’impugnata sentenza e degli atti difensivi depositati dalle parti nel presente giudizio di legittimità, si evince, infatti, che l’avviso di accertamento in discussione riguardava il pagamento insufficiente dell’imposta sulla pubblicità, relativa ad impianti fissi, per l’anno di imposta 2003. I pagamenti del tributo in questione erano stati effettuati, invero, dalla contribuente in misura ridotta rispetto all’imposta dovuta sulla base della dichiarazione presentata per l’intero anno in contestazione, giacchè effettuati sulla base della diffusione dei messaggi pubblicitari, ed in relazione alla durata degli stessi, dichiaratamente inferiore a tre mesi, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 12, comma 2.

3.3.2. Ebbene, va osservato, al riguardo, che l’oggetto dell’imposta comunale sulla pubblicità, costituito – in base al D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 1, 3 4 e 5 – dai comportamenti pubblicitari, visivi o acustici, realizzati per il tramite di affissioni su appositi impianti o di altri mezzi, va riferito – contrariamente a quanto assume la resistente, condivisa, sul punto, dal giudice di appello ~ non all’attività di diffusione del messaggio, bensì al mezzo pubblicitario disponibile ed alla relativa potenzialità di uso (v.

Cass. 6446/04, 552/07, 4783/11). Come, del resto, si evince, in maniera inequivocabile, dal riferimento che lo stesso comma 3 dell’art. 12 del decreto cit., opera, nell’indicare il criterio di determinazione dell’imposta per la pubblicità mediante affissioni dirette, alla "superficie complessiva" degli impianti adoperabili dal contribuente, e quindi allo strumento disponibile per la pubblicità, e non all’attività di diffusione dei messaggi pubblicitari, ossia all’effettivo utilizzo di tale strumento.

Pertanto, in difetto di dichiarazioni di variazione specifiche in corso d’anno, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 8, che – contrariamente a quanto assume la Pubbli Roma s.r.l. – non possono riguardare le affissioni effettuate nell’anno e la loro durata, onde fruire della riduzione di imposta di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 12, comma 2, bensì l’effettiva disponibilità degli impianti fissi utilizzabili per la pubblicità e le loro dimensioni, correttamente il Comune commisura l’entità dell’imposta alla tipologia degli impianti oggetto dell’originaria dichiarazione annuale, ed all’intero arco dell’anno cui si riferisce detta dichiarazione.

3.3.3. Ebbene, nel caso concreto, è evidente che avendo la Pubbli Roma s.r.l. effettuato la dichiarazione di pubblicità in relazione ad impianti fissi per l’anno 2003 (non risulta, invero, contestata dal Comune l’abusività di detti impianti), in difetto di specifiche e dettagliate dichiarazioni di variazione D.Lgs. n. 507 del 1993, ex art. 8, in relazione ad eventuali impianti dismessi ed alla conseguente cessazione – in tutto o in parte – dell’attività pubblicitaria, legittimamente il Comune di Roma ha commisurato l’imposta a quanto dichiarato in origine dalla società contribuente, in relazione agli impianti di affissione disponibili per tutto l’anno.

Ed infatti, in mancanza di successive precisazioni in modifica da parte della Pubbli Roma s.r.l., circa la superficie esposta o il tipo di pubblicità effettuata, D.Lgs. n. 507 del 1993, ex art. 8, commi 2 e 3, non poteva l’ente pubblico che presumere la potenzialità d’uso di detti impianti per tutto l’anno 2003, in conformità alla concessione in uso alla contribuente, tenuto conto, altresì, del fatto che -come dianzi detto – l’oggetto del tributo in parola va individuato nella mera disponibilità del mezzo pubblicitario, e non già nell’attività di diffusione dei messaggi di pubblicità, mediante l’uso effettivo di tali impianti. Del tutto irrilevanti sono, pertanto, da ritenersi – al contrario di quanto ritenuto dalla CTR – le dichiarazioni che, nel corso dell’anno 2003, la contribuente assume di avere effettuato, giacchè aventi ad oggetto, per sua stessa ammissione, non la disponibilità effettiva degli impianti fissi (e cioè, il loro eventuale, parziale o totale, smobilizzo), costituente l’oggetto del tributo in parola, bensì "le caratteristiche, la durata della pubblicità e l’ubicazione dei mezzi pubblicitari che si andavano ad utilizzare".

3.3.4. Per quanto attiene, poi, alla prova della superficie netta disponibile, che, ai sensi del citato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7, costituisce il parametro per la determinazione dell’imposta, va osservato che del tutto legittimamente il Comune provvede alla liquidazione del tributo sulla base del contenuto della dichiarazione (iniziale o di variazione) che il contribuente è tenuto a presentare a norma del successivo art. 8, senza necessità di procedere, per ogni dichiarazione, ad un’attività istruttoria di accertamento (Cass. 6446/04, 16117/07, 27900/09).

Va, per vero, osservato in proposito che la superficie degli impianti assoggettabile ad imposizione è da intendersi – ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7 – quella comunque disponibile ed utilizzabile dal contribuente, comprensiva delle cornici, a prescindere dall’utilizzo effettivo che di detta superficie il contribuente medesimo abbia a fare. Ed infatti, va considerato – come dianzi detto – che l’oggetto del tributo in parola non è riferito all’attività di diffusione del messaggi, che in concreto può anche mancare, ma al mezzo all’uopo disponibile per il contribuente, atteso che l’art. 7 del D.Lgs. cit., assume come parametro per la determinazione dell’imposta la "superficie minima della figura geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario indipendentemente dal numero dei messaggi in esso contenuti", e quindi anche se tale numero sia pari a zero, sì da corrispondere alla mancata utilizzazione effettiva dell’impianto.

L’oggetto del tributo va riferito, pertanto, al mezzo pubblicitario disponibile in tutti gli elementi che lo compongono, anche se non effettivamente utilizzato per la diffusione dei messaggi pubblicitari; fatto salvo il caso in cui il contribuente fornisca, in concreto, la prova che le cornici svolgano una funzione di mero sostegno, quali "superfici tecniche" esenti da imposta, non ricomprese nel calcolo della superficie soggetta a tassazione, in quanto strutturali al mezzo e prive di finalità pubblicitarie (cfr.

Cass. 6446/04, 16117/07, 1161/08, 27900/09).

Tuttavia, nel caso concreto, tale dimostrazione non risulta fornita dalla Pubbli Roma s.r.l., come si evince dalla stessa decisione di appello, del tutto laconica sul punto, essendosi la CTR limitata ad una mera enunciazione di principio circa l’esenzione incondizionata da imposta delle cornici, in quanto elementi accessori dell’impianto, del tutto errata per le ragioni suesposte, senza operare il necessario accertamento di fatto circa l’effettivo impiego di tali elementi strutturali negli impianti in uso, nel caso di specie, alla contribuente.

Per tutte le ragioni esposte, pertanto, il ricorso proposto dall’ente territoriale non può che essere accolto.

4. L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente.

5. Le spese del presente grado del giudizio vanno poste a carico della resistente soccombente, nella misura di cui in dispositivo.

Concorrono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei gradi di merito.
P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo proposto dalla contribuente;

condanna la resistente al rimborso delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.500,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge; dichiara compensate tra le parti le spese dei giudizi di merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 30 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-05-2013) 25-10-2013, n. 43817

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Venezia confermava integralmente la sentenza emessa del Tribunale di Venezia, in data 16 settembre 2008, all’esito di giudizio abbreviato, con la quale X.A. e K.A. erano condannati alla pena di giustizia per il delitto di tentato furto aggravato, per violenza sulle cose, di attrezzi all’interno di un magazzino.
Contro tale decisione propongono ricorso per cassazione entrambi gli imputati, ciascun con ricorso proposto dal difensore di fiducia, avv. xxx ed il K. anche con ricorso personale.
Il ricorso personale del K. è affidato a quattro motivi:
1.1 Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E, in relazione alle deduzioni difensive relative alla violazione degli artt. 192 e 533 c.p.p.. A giudizio del ricorrente, oltre all’avvenuta rottura del lucchetto, non Vi sono indizi da potersi reputare gravi, precisi e concordanti, tale da consentire di affermare la sua responsabilità penale; si segnalano ad esempio le espressioni improprie del verbale di arresto, nel quale si parla di balcone "divelto e scardinato", circostanze contrastanti con la deposizione testimoniale di P. A., che parla di scuri forzati.
1.2 Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B, per l’erronea qualificazione del fatto quale furto aggravato, anzichè violazione di domicilio (con conseguente improcedibilità per difetto di querela), poichè dalla dinamica dei fatti non sarebbe emersa la volontà di commettere un reato di furto; dalle dichiarazioni del coimputato X. sarebbe emersa solamente l’intenzione di rompere il lucchetto, ma non anche la realizzazione dell’intento, per cui il reato potrebbe essere stato opera di terzi. Inoltre la mancata concessione delle attenuanti generiche si fonda su precedenti penali insignificanti e risalenti nel tempo;
1.3 Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B ed E, per erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione all’aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 2 ed al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;
1.4 Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. C, in relazione agli artt. 56 e 133 c.p., in merito alla corretta quantificazione della pena, poichè il giudice avrebbe potuto applicare la massima diminuzione prevista per il tentativo, pervenendo ad una sanzione più lieve.
2. X.A. e K.A., con atti di ricorso separati e sottoscritti dal difensore di fiducia, avv. xxx, dall’identico contenuto, lamentano violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B, in relazione all’art. 192 c.p.p..
Dopo aver ricostruito brevemente i fatti e le risultanze del verbale di arresto, i ricorrenti evidenziano che l’unico teste oculare, una signora che aveva dato l’allarme, ma che è rimasta non identificata, non è stata mai sentita dalla polizia giudiziaria; è stato sentito invece il teste P.A., il quale ha solamente udito "il rumore degli scuri che si stavano rompendo". Poichè dagli atti investigativi risulta solamente la rottura di un lucchetto, a giudizio dei ricorrenti la prova è insufficiente, poichè gli indizi sono suscettibili di interpretazioni alternative, in quanto privi del carattere di univocità.
Motivi della decisione
1. I ricorsi vanno rigettati per le ragioni di seguito esposte.
2.1 In via preliminare occorre precisare che la prova critica o indiretta, fondata sulla utilizzazione degli indizi, consiste essenzialmente nella deduzione di un fatto ignoto da un fatto noto, attraverso un procedimento gnoseologico che poggia su regole di esperienza, ricavate dall’osservazione del normale ordine di svolgimento delle vicende naturali e di quelle umane, alla cui stregua è possibile riconoscere che il fatto noto è legato al fatto da provare da un elevato grado di probabilità o di frequenza statistica, che rappresenta la base giustificativa della regola di inferenza su cui poggia il metodo logico-deduttivo della valutazione degli indizi.
2.2 Nella giurisprudenza di questa Corte sono stati chiaramente enunciati i principi che regolano la prova indiziaria, sottolineando, innanzi tutto, che il procedimento indiziario deve muovere da premesse certe, nel senso che queste devono corrispondere a circostanze fattuali non dubbie e non possono, quindi, consistere in dati fondati su mere ipotesi o congetture ovvero su giudizi di verosimiglianza (Sez. 4, n. 2967 del 25/01/1993, Bianchi, Rv. 193407;
Sez. 2, n. 43923 del 28/10/2009, P.M. in proc. xxx, Rv. 245606).
Gli indizi, oltre a corrispondere a dati di fatto certi, devono essere gravi, precisi e concordanti, secondo l’esplicito dettato dell’art. 192 c.p.p., comma 2, che subordina alla presenza di questi tre concorrenti requisiti l’equiparazione della prova critica o indiretta alla prova rappresentativa o storica o diretta: con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di essi, gli indizi non possono assurgere al rango di vera e propria prova idonea a fondare la dichiarazione di responsabilità penale.
2.3 Il sindacato di legittimità sul procedimento logico che consente di pervenire al giudizio di attribuzione del fatto con l’utilizzazione di criteri di inferenza, o massime di esperienza, è diretto a verificare se il giudice di merito abbia indicato le ragioni del suo convincimento e se queste ragioni siano plausibili.
E, per giungere a queste conclusioni, è necessario verificare se siano stati rispettati i principi di completezza (se il giudice abbia preso in considerazione tutte le informazioni rilevanti), di correttezza e logicità (se le conclusioni siano coerenti con questo materiale e fondate su corretti criteri di inferenza e su deduzioni logicamente ineccepibili).
In tema di processi indiziari, alla Corte di Cassazione spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi, nonchè la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario, ma non un nuovo accertamento, nel senso della ripetizione dell’esperienza conoscitiva del giudice del merito. Ne discende che l’esame della gravità, precisione e concordanza degli indizi da parte del giudice di legittimità è semplicemente controllo sul rispetto, da parte del giudice di merito, dei criteri dettati in materia di valutazione delle prove dall’art. 192 c.p.p., controllo seguito con il ricorso ai consueti parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale (Sez. 6, n. 20474 del 15/11/2002, xxx, Rv. 225245; Sez. 1, n. 42993 del 25/09/2008, Pipa, Rv. 241826).
2.4 Alla luce di queste premesse, i ricorsi proposti dall’avv. xxx ed il primo motivo di ricorso proposto dal K. sono infondati, al limite dell’inammissibilità, nella parte in cui si contesta l’esistenza di un apparato giustificativo della decisione, in punto di univocità degli indizi, poichè la sentenza da conto delle ammissioni dell’imputato X., che ha riferito di aver avuto intenzione di rompere il lucchetto (a riprova del fatto che questo era integro) e chiarisce che, poichè gli imputati sono stati fermati dopo che avevano percorso qualche centinaio di metri a piedi, avevano avuto tutto il tempo di disfarsi degli attrezzi da scasso.
Inoltre si ricostruisce in maniera del tutto logica la coerenza tra quanto accertato dai Carabinieri in ordine all’effrazione della porta- finestra e quanto riferito dal teste P. (rumori di scuri che si stavano rompendo, repentino allontanamento di due persone e riconoscimento delle due persone negli odierni imputati), pur in presenza di alcune imprecisioni lessicali del verbale di arresto (essendo evidente che le espressioni "divelto" e "scardinato" non potessero riferirsi al balcone, ma piuttosto al lucchetto – la prima – e alla porta finestra – la seconda).
3. Va dichiarato manifestamente infondato il secondo motivo di ricorso proposto dal K., relativo alla corretta qualificazione giuridica da attribuire al fatto, quale violazione di domicilio: la sentenza chiarisce in maniera adeguata che uno degli imputati era creditore della persona offesa ed era a conoscenza del fatto che la casa era disabitata e senza custodia e che vi si trovavano attrezzi, di notevole valore, sicchè appare evidente che l’azione degli imputati non era soltanto diretta a introdursi nella casa vincendo una volontà contraria dell’avente diritto, ma piuttosto ad impossessarsi di beni di valore, che si trovavano nell’abitazione deserta.
4. Gli ulteriori due motivi di ricorso sono parimenti inammissibili:
il terzo, relativo all’aggravante della violenza sulle cose, chiaramente desumibile dalla dinamica dei fatti, come accertata dall’analisi degli indizi, e relativo al diniego delle attenuanti generiche, motivato con riferimento al precedente penale specifico per furto ed ai precedenti di polizia, oltre che per la condotta processuale non collaborativa; il quarto, in merito alla corretta quantificazione della pena, considerata l’entità della pena assolutamente modesta (2 mesi e 20 giorni di reclusione e 140 Euro di multa), ritenuta "congrua" dalla Corte territoriale.
4.1 In proposito va rimarcato che tanto la modulazione della pena quanto la concessione delle attenuanti generiche, e il connesso giudizio di bilanciamento con le aggravanti, sono statuizioni che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p. (Sez. 3, n. 1182 del 17/10/2007, xxx e altro, Rv. 238851); ne consegue che è inammissibile la censura che nel giudizio di cassazione miri ad una nuova valutazione della congruità della pena.
Nel caso di specie la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in questione, come sopra riportato, senza trascurare di sottoporre a valutazione espressamente la condotta processuale dell’imputato, che lungi dall’ammettere i fatti, ha negato l’evidenza, "giacchè egli oltre a negare quanto accertato, ha addirittura negato di essere fuggito" (pagina 6 della sentenza).
4.2 Ne è scaturito un giudizio di adeguatezza della pena irrogata dal primo giudice sotto il duplice profilo, oggettivo e soggettivo, dei reati in contestazione. Siffatta linea argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata; d’altra parte non è necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., essendo invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che nel discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo.
4.3 Ed ancora legittimamente il giudice, tra gli elementi di valutazione che può utilizzare ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p. o di determinazione della pena, indicati dall’art. 133 c.p., può considerare i precedenti giudiziari, ancorchè non definitivi (conf.
Sez. 5, ord. N. 3540 del 5/7/1999, xxx, Rv 214477; Sez. 2, n. 18189 del 05/05/2010, xxx e altri, Rv. 247469, a proposito del diniego della sospensione condizionale della pena).
5. In conclusione il ricorso è infondato e la sentenza della Corte di appello di Venezia dev’essere confermata. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sent. n. 296/09

costituito da:

Avviso di Deposito

del

a norma dell’art. 55

della L. 27 aprile

1982 n. 186

Il Direttore di Sezione

Giuseppe Di Nunzio Presidente

Italo Franco Consigliere, relatore

Marco Morgantini Primo Referendario

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 194/2009 proposto da ANASTASIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv.to Piercarlo Mantovani, con domicilio presso la segreteria del T.A.R. ai sensi dell’art. 35 del R.D. 26.6.1924 n. 1054;

contro

il Comune di Santorso in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Emma Bergamin, con domicilio presso la segreteria del T.A.R. ai sensi dell’art. 35 del R.D. 26.6.1924 n. 1054;

per l’annullamento

previa sospensione dell’esecuzione, dell’ordinanza del 28.10.2008 n. 104/2008 prot. 11772 con cui il Comune di Santorso ha ingiunto alla ditta ricorrente di ripristinare lo stato dei luoghi.

Visto il ricorso, notificato il 29.12.2008 e depositato presso la Segreteria il 21.1.2009, con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Santorso, depositato il 2.2.2009;

Visti gli atti tutti di causa;

Uditi alla camera di consiglio del 4 febbraio 2009, convocata a’ sensi dell’art. 21 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 così come integrato dall’art. 3 della L. 21 luglio 2000 n. 205 – relatore il Consigliere Italo Franco – l’avv. Mantovani per la parte ricorrente e l’avv. Bergamin per il Comune intimato;

Rilevata, a’ sensi dell’art. 26 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 così come integrato dall’art. 9 della L. 21 luglio 2000 n. 205, la completezza del contraddittorio processuale e ritenuto, a scioglimento della riserva espressa al riguardo, di poter decidere la causa con sentenza in forma semplificata;

Richiamato in fatto quanto esposto nel ricorso e dalle parti nei loro scritti difensivi;

considerato

che, tra le censure mosse con il ricorso, particolarmente apprezzabile si manifesta il quinto mezzo di impugnazione, con il quale si rileva, in sostanza, la vanificazione del diritto di partecipazione;

che, invero, palese appare il vizio dedotto con tale censura, avendo la Pubblica Amministrazione resistente assunto il provvedimento impugnato a distanza di soli tre giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, in evidente contrasto, oltretutto, con l’assegnazione del termine di trenta giorni per la presentazione di osservazioni;

che il comportamento di cui sopra viene costantemente censurato dalla più recente giurisprudenza;

che la censura in discorso si manifesta, dunque, fondata e assorbente di ogni altra;

che, in conclusione, il ricorso deve considerarsi fondato e va accolto. Per l’effetto, è annullato il provvedimento impugnato;

che sussistono i motivi per compensare tra le parti le spese e onorari di giudizio

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, seconda sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.

Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia, nella Camera di Consiglio del 4 febbraio 2009.

Il Presidente L’Estensore

Il Segretario

SENTENZA DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il……………..…n.………

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Direttore della Seconda Sezione

T.A.R. Veneto – II Sezione n.r.g. 194/2009

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it

Cass. pen., sez. V 30-11-2006 (08-11-2006), n. 39827 Interferenze illecite nella vita privata – Registrazione, da parte di un coniuge, di conversazioni dell’altro coniuge con un terzo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Motivi della decisione

Con la sentenza impugnata la Ca di Milano ha assolto A. G. dall’imputazione di indebita interferenza nella vita privata della moglie M. F., ritenendo che il fatto non sussista in quanto commesso nell’abitazione comune.

Ricorre per cassazione il Pm, anche su sollecitazione della parte civile, e deduce violazione dell’articolo 615bis e vizio di motivazione della sentenza impugnata, denunciando erronea interpretazione dell’articolo 615bis Cp ed erronea ricostruzione del fatto, atteso che i coniugi, sebbene non ancora legalmente separati, lo erano appunto di fatto.

V?è memoria dell’imputato.

Il ricorso è fondato.

Come risulta dalla sentenza impugnata, è indiscusso che A. G. registrò indebitamente le conversazioni che la moglie aveva non solo con lui (nel qual caso non sarebbe configurabile un?intercettazione) ma anche con terzi.

Sicché, pur prescindendo dalla questione di fatto relativa all’effettiva convivenza dei coniugi, non v?è dubbio che A. G. operò delle intercettazioni ambientali in ambito domiciliare ai danni della moglie. E questo comportamento è idoneo a integrare gli estremi del reato previsto dall’articolo 615bis Cp.

Deve ritenersi infatti che, mentre l’articolo 617bis Cp prevede come punibili le illecite intercettazioni di conversazioni telegrafiche o telefoniche, vanno invece punite a norma dell’articolo 615bis Cp appunto le intercettazioni ambientali eseguite indebitamente in ambito domiciliare (Cassazione, Sezione quinta, 19383/06, Pinzauti, non massimata sul punto).

I giudici del merito hanno escluso la configurabilità del reato, in ragione della comune appartenenza, all’imputato e alla persona offesa, del domicilio nel quale le intercettazioni furono eseguite.

Ma si tratta di un?interpretazione palesemente errata dall’articolo 615bis Cp, perché ciò che rileva ai fini della configurabiltà del reato è la violazione della riservatezza domiciliare della persona offesa, non la disponibilità di quel domicilio anche da parte dell’autore dell’indebita intercettazione né il suo rapporto di convivenza coniugale con la vittima.

Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, «i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio, infatti, non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi, ma ne presuppongono anzi l’esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di piena e pari dignità; tanto vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza» (Cassazione, Sezione quinta, 23 maggio 1004, Innocenti, m. 198994). Sicché non rilevano le ragioni di allarme esposte dall’imputato nella sua memoria.

La sentenza impugnata va pertanto annullata, ma senza rinvio, essendo ormai estinto per prescrizione il delitto consumato nel luglio 1998.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.