Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-01-2011, n. 1494 Onerosità o difficoltà dell’esecuzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

N.C., titolare dell’impresa omonima, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Torre Annunziata la Cooperativa Il Poggio a r.l. per sentirla condannare al pagamento del saldo del corrispettivo delle opere da medesimo eseguite in virtù di contratto di appalto del 21/11/1984 e successiva integrazione e modifica del 30- 7-1985.

Esponeva che: aveva realizzato un complesso immobiliare per civili abitazioni, composto da quattro fabbricati con opere di urbanizzazione primarie e secondarie sito nel Comune di Torre del Greco; il costo complessivo delle opere eseguite ed accettate dalla Cooperativa ammontava a L. 11.860.000.000 come da computo metrico stimativo mentre la Cooperativa aveva versato alla società istante acconti per complessive L. 5.816.832.000, per cui la medesima era debitrice nei confronti dell’attore del saldo prezzo di L. 6.043.168.000, nonchè dell’importo dovuto a titolo di revisione dei prezzi nella misura da precisarsi in corso di causa anche a mezzo c.t.u..

La convenuta, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda; deduceva che: le opere non erano state tutte consegnate, alcune non erano state completate, tre erano difformi dal progetto e non eseguite a regola d’arte; contestava l’ammontare del costo dei lavori e il diritto alla revisione prezzi.

Con sentenza del 18 aprile 2003 il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, condannava la s.r.l. Cooperativa Il Poggio al pagamento in favore del Fallimento N.C., subentrato all’attore, della somma di L. 5.446.258.000, pari a Euro 2.82.770.000, oltre rivalutazione monetaria dal 1992 ed interessi sulla sorta capitale dal 24/10/1991.

Il corrispettivo dovuto era quantificato nella complessiva somma di L. 11.263.090 000, dal quale andava detratto l’acconto di L. 5.816.832.000.

Rigettava l’intervento adesivo spiegato da C.G., + ALTRI OMESSI ; dichiarava inammissibile quello spiegato dagli altri interventori R.G., + ALTRI OMESSI .

Con sentenza dep. il 1 febbraio 2005 la Corte di appello di Napoli, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla s.r.l. Cooperativa Il Poggio, C.G., + ALTRI OMESSI rigettava la domanda proposta da N.C. e poi proseguita dall’omonimo Fallimento; rigettava invece:

gli appelli proposti da R.G., + ALTRI OMESSI ; gli appelli incidentali proposti da N.M., dal Fallimento N. nonchè da N.C. in proprio;

l’atto di intervento proposto da D.G..

Per quel che interessa nella presente sede, i Giudici di appello ritenevano che, in base al contratto del 1984 e alla successiva integrazione del 1985, il corrispettivo dell’appalto era stato determinato a forfait in complessive L. 100.000.000 per la costruzione fuori terra, mentre per la sistemazione esterna (compresa la recinzione, la illuminazione e la pavimentazione) il corrispettivo era stato fissato con riferimento al costo delle opere sulla base dei "prezzi di piazza" da determinare al termine dei lavori con facoltà per la Cooperativa di poter liquidare quanto dovuto all’appaltatore merce cessione allo stesso di immobili di sua proprietà che fossero risultati eccedenti. E, infatti, nell’assemblea del 5/4/1990 la Cooperativa deliberò la cessione della piena proprietà del piano cantinato con boxes e altri locali e rampe di accesso a favore dell’impresa N.C. per alcuni lavori eseguiti dallo stesso, quali recinzione dei fabbricati, illuminazione esterna, tramezzatura dei locali e piano cantinato etc.: il N., intervenendo negli atti di vendita per notaio Tafuri dell’8/11/1990, del 9/11/1991 e del 30/12/1991, con i quali la Cooperativa alienò a terzi la proprietà dei locali cantinati, incassò contestualmente il prezzo dichiarando di non avere altro a pretendere.

Orbene, relativamente al prezzo stabilito a corpo, il compenso – secondo i Giudici – non poteva essere determinato sulla base dei calcoli effettuati dal consulente alla stregua delle tariffe del Genio civile, dovendo essere stabilito secondo la previsione contrattuale che era costituita esclusivamente dal contratto del 21/11/1984 e dalla modifica del 30-7-1985 nè poteva essere preteso dall’appaltatore il maggior compenso per revisione prezzi atteso che, ai sensi dell’art. 1655 cod. civ., in ogni ipotesi di appalto l’appaltatore, al pari di qualsiasi altro imprenditore impegnato in qualsivoglia genere di genere di intrapresa, assume il rischio economico e resta esposto all’eventualità di realizzare i lavori in perdita sia quando il prezzo sia concordato come invariabile sia quando i meccanismi legislativamemte o contrattualmente previsti per la revisione siano insufficienti ad adeguarlo ai costi concretamente sopportati; la deroga all’art. 1164 cod. civ., nel contratto a forfait non comporta alcuna alterazione della struttura ovvero della funzione del contratto, per cui l’attore non poteva chiedere la maggiorazione del corrispettivo, deducendo il maggior costo degli interventi. Neppure spettava la revisione prezzi relativamente all’appalto concernente la sistemazione esterna, tenuto conto che l’importo – che secondo le pattuizioni doveva essere liquidato al termine dei lavori – era stato determinato con valutazione riferita alle tariffe vigenti al 1-7-1990, considerato che il primo dei summenzionati atti di vendita per notar Tafuri fu dell’8/11/1990.

I Giudici, quindi, ritenevano che l’appaltatore aveva già riscosso le somme risultate dovute.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il Fallimento N.C.) sulla base di sei motivi.

Resistono con controricorso la Cooperativa Il Poggio a r.l., C. G., + ALTRI OMESSI proponendo ricorso incidentale condizionato affidato a tre motivi.

Non hanno svolto attività difensiva gli altri intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perchè sono stati proposti avverso la stessa sentenza. Con il primo motivo il ricorrente, lamentando omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5) in riferimento al petitum, art. 99 cod. proc. civ., censura la decisione gravata laddove, nel ritenere che il prezzo dell’appalto fosse stato determinato a corpo, non aveva considerato che la controversia de qua si fondava sulla determinazione del compenso secondo la tariffa del Genio Civile, atteso che l’iniziale previsione contrattuale era stata abbandonata dalle parti che per mutuo consenso avevano adottato il criterio di determinazione del corrispettivo secondo la tariffa surrichiamata: il che aveva trovato conferma nella confessione giudiziale del Presidente della Cooperativa.

Il motivo è infondato.

La sentenza ha innanzitutto precisato che la domanda proposta dall’attore era fondata sul contratto di appalto del 21-11-1984 e sulla successiva integrazione del 30-7-1985; ha quindi stabilito il compenso dovuto per le costruzioni fuori terra, tenendo correttamente presente, ai sensi dell’art. 1657 cod. civ., quella che era stata la volontà contrattuale così come consacrata nel regolamento negoziale di cui si è detto. E invero, nell’esaminare le deduzioni al riguardo formulate dalla curatela che aveva fatto riferimento all’esistenza di accordi successivi modificativi dell’ordinaria pattuizione, la sentenza ha evidenziato che nessuna prova di tali intese era stata fornita dall’attore: in realtà, anche in questa sede la censura difetta di autosufficienza, in quanto del tutto generici sono i riferimenti a tali accordi, non meglio specificati, mentre non è riportato il testo integrale delle dichiarazioni rese dal rappresentante legale della società Cooperativa. Al riguardo va considerato che il ricorrente il quale, in sede di legittimità, denunci l’omessa od erronea valutazione di un documento o di una prova da parte del giudice di merito ha l’onere, a pena di inammissibilità del motivo di censura, di riprodurre nel ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo, il contenuto del documento o le risultanze della prova nella loro integrità in modo da consentire alla Corte, che non ha accesso diretto agli atti del giudizio di merito, di verificare la decisività della censura (Cass. 14973/2006; 12984/2006; 7610/2006;

10576/2003).

Vanno esaminati congiuntamente il secondo e il quarto motivo, essendo strettamente connessi.

Con il secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5) con riferimento all’art. 1321 cod. civ., censura l’interpretazione della dichiarazione "non aver null’altro a pretendere" resa dal N. nei contratti con cui quest’ultimo aveva riscosso dagli acquirenti le somme relative agli immobili che la Cooperativa aveva ceduto in pagamento dei lavori di sistemazione esterna, rilevando che tale espressione era da intendersi diretta solo all’acquirente del locale box e non alla Cooperativa: in effetti, il N., che nulla aveva mai dovuto quietanzare alla convenuta, aveva riscosso il prezzo relativo a 11 appartamenti, mentre avrebbe dovuto ricevere il corrispettivo di 40 appartamenti: i rimanenti 29 locali, che avrebbero dovuto pure essere trasferiti all’attore e in relazione ai quali questi non aveva ricevuto alcuna somma, erano stati in parte venduti a terzi e in parte erano ancora nella disponibilità della Cooperativa.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia l’omessa motivazione sul giudicato interno formatosi relativamente alla portata del contratto di appalto e alla specificazione delle opere interne laddove dalle dichiarazioni rese con la comparsa di costituzione dal nuovo difensore della Cooperativa nel giudizio di primo grado era emerso che le parti avevano fissato concordemente il valore delle opere esterne, stabilendo di adempiere l’obbligazione di pagamento del relativo corrispettivo con la cessione dei 40 boxes e locali commerciali, il cui valore era stato determinato in L. 3.400.000, mentre l’attore aveva ricevuto il trasferimento soltanto di 11 locali, rimanendo creditore del valore di quelli restanti non trasferiti, non dovendo confondersi il valore commerciale degli immobili, trasferiti a titolo di datio in solutum, frutto di accordo transattivo che sfugge a ogni valutazione numeraria con quello delle opere appaltate ed eseguite.

Il secondo e il quarto motivo vanno disattesi.

Occorre premettere che la cosa giudicata è configurabile in relazione agli accertamenti che hanno costituito il presupposto necessario della decisione assunta dal giudice con riferimento al rapporto dedotto in giudizio e che non siano stati oggetto di impugnazione. Ora, è qui appena il caso di considerare che, anche volendo prescindere dal considerare che il ricorrente non specifica neppure quali sarebbero le statuizioni del giudice in relazione alle quali si sarebbe formato il giudicato interno, in realtà proprio dalla decisione della Corte di appello è emerso che la Cooperativa con l’appello aveva censurato la sentenza del Tribunale, denunciando gli errori compiuti dal consulente tecnico d’ufficio che nella determinazione della revisione prezzi, aveva raffrontato il costo delle opere con il valore di mercato degli immobili dopo 10 anni, e aveva calcolato due volte la somma di L. 933.000.000 con cui era stato determinato il costo delle opere esterne. Pertanto, deve escludersi la formazione del giudicato sulla determinazione del valore delle opere esterne nel senso preteso dal ricorrente, secondo cui lo stesso dovrebbe ritenersi stabilito con riferimento al valore degli immobili che, per accordo delle parti, dovevano essere ceduti a titolo di datio in solutum.

La sentenza ha accertato che, in attuazione della cessione deliberata il 5-4-1990 il N., intervenendo negli atti di vendita con i quali la Cooperativa aveva ceduto a terzi i locali cantinati, ebbe a ricevere il relativo prezzo dichiarando di non avere null’altro a pretendere: i Giudici hanno ritenuto che in tal modo le parti avevano dato esecuzione agli accordi relativi al pagamento del compenso dovuto per le opere esterne.

Orbene, le doglianze si risolvono nella censura relativa all’apprezzamento compiuto dai giudici in ordine al regolamento pattizio convenuto dai contraenti circa il pagamento delle opere esterne, dovendo qui ricordarsi che la sentenza ha accertato che con la cessione degli immobili deliberata il 5-4-1990 e con la riscossione degli importi relativi direttamente dal N. che ebbe a riceverli direttamente dagli acquirenti, si era realizzata la datio in solutum con cui le parti avevano inteso estinguere l’obbligazione di pagamento di tali lavori: il motivo, che sollecita la verifica della ricostruzione e della definizione dei rapporti fra le parti in modo difforme dall’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata, si sostanzia nella richiesta dell’ esame e dell’interpretazione dei contratti in questione, che è operazione riservata all’indagine di fatto del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se non attraverso la deduzione della violazione dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., che nella specie non ha formato oggetto di specifica censura.

Con il terzo motivo il ricorrente, lamentando omessa motivazione e violazione di norme di diritto (art. 228 cod. proc. civ.), censura la sentenza impugnata laddove non aveva tenuto conto della confessione giudiziale resa dal rappresentante della Cooperativa in sede di interrogatorio formale.

Il motivo è inammissibile.

La censura difetta di autosufficienza, tenuto conto che il ricorrente si è limitato a riportare uno stralcio delle dichiarazioni rese dal Presidente della Cooperativa mentre avrebbe dovuto trascrivere il testo integrale delle dichiarazioni in modo da consentire alla Corte di verificare la decisività della censura.

Con il quinto motivo il ricorrente, lamentando violazione e, in subordine, falsa applicazione degli artt. 1664 e 1665 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove aveva escluso che fosse applicabile al contratto a corpo la revisione prezzi, tenuto conto che il rischio posto a carico dell’appaltatore conseguente all’invariabilità del prezzo non può operare nel caso di eventi imponderabili e imprevedibili; nella specie, il grave ritardo nell’inizio dei lavori fu determinato dalle lungaggini burocratiche nel rilascio delle concessioni e delle autorizzazioni necessarie per l’inizio dei lavori appaltati.

Con il sesto motivo il ricorrente, lamentando violazione e, in subordine falsa applicazione dell’art. 1362, e segg., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5), denuncia l’illegittimità della sentenza grava laddove aveva ritenuto che il prezzo dell’appalto fosse stato determinato a corpo, quando tale clausola deve essere inequivocabilmente espressa nel contratto mentre nella specie in nessuno degli accordi intercorsi fra le parti era stata pattuita la deroga all’art. 1664 cod. civ..

Il quinto e il sesto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la stretta connessione, vanno disattesi: peraltro, pur se il dispositivo è conforme a diritto, la sentenza impugnata va corretta, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., u.c., nella parie in cui è erroneamente motivata in diritto.

Occorre sottolineare che in materia di appalto, qualora il prezzo sia determinato a corpo e non a misura, l’invariabilità del compenso dovuto all’appaltatore comporta che questi non ha diritto a pretendere la maggiorazione del prezzo per effetto dell’aumento del costo dei materiali e della manodopera nel frattempo intervenuti, dovendo sopportare quelle conseguenze negative che, rientrando nel rischio di impresa, sono insite nella natura di contratto ad esecuzione differita. Tale principio peraltro, se giustifica l’affermazione secondo cui è irrilevante l’errore di valutazione compiuto dall’appaltatore nel determinare la congruità del prezzo dovendo il medesimo tenere conto di tutti gli eventi che possono prevedersi in base alla particolare diligenza che la qualifica professionale gli richiede, non può evidentemente trovare applicazione nel caso in cui, ai sensi dell’art. 1664 cod. civ., comma 1, l’aumento dei costi dei materiali e della manodopera sia stato causato da eventi imprevedibili ovvero da fatti che siano del tutto indipendenti dalla volontà delle parti e che non solo non erano conosciuti ma non potevano neanche essere conoscibili in base alla diligenza professionale. La norma in oggetto costituisce applicazione speciale in materia di appalto dell’art. 1467 cod. civ., che – dettato per i contratti a esecuzione periodica, continuata o differita – consente la riduzione ad equità delle condizioni di contratto, in considerazione del sopravvenuto venir meno della corrispettività del sinallagma funzionale per lo squilibrio fra le prestazioni causato da fatti imprevedibili – al momento della conclusione del contratto – verificatisi durante l’esecuzione del contratto. Dunque, va corretta l’affermazione della sentenza impugnata che, richiamando alcuni precedenti di legittimità (S.U. 2326/197; 6393/1996) ha escluso in via assoluta l’applicabilità della revisione dei prezzi nel caso di appalto a corpo, ritenendo in tal caso legittima la deroga all’art. 1664 cod. civ.: invece, per quel che si è detto, la revisione dei prezzi, prevista dall’art. 1664 cod. civ., opera anche nel caso di appalto a corpo, a meno che le parti, nell’ambito dell’autonomia privata, non abbiano espresso con dichiarazione inequivoca la volontà di rinunciarvi.

Ne consegue che la doglianza formulata con il sesto motivo circa l’interpretazione del contratto a corpo, compiuta dalla sentenza impugnata per escludere la revisione dei prezzi, è ininfluente ai fini della presente decisione, non essendo di ostacolo alla revisione prezzi la semplice previsione del prezzo a forfait, come invece ritenuto dalla Corte di appello.

Ciò posto, la pretesa dell’attore è comunque infondata.

Infatti, deve rilevarsi che le circostanze dedotte dal ricorrente per dimostrare la sussistenza dei presupposti voluti dall’art. 1664 cod. civ., non concretano certamente gli eventi previsti da tale norma, posto che il ritardo dell’Amministrazione nel rilasciare la concessione edilizia e le autorizzazioni necessarie per iniziare l’esecuzione delle opere non integra l’evento imprevedibile o straordinario di cui al citato art. 1664, trattandosi di fatto che poteva e doveva essere prudenzialmente considerato e valutato dall’appaltatore in sede di conclusione del contratto proprio in considerazione della diligenza professionale richiesta dalla qualità di imprenditore edile dal medesimo rivestita.

Pertanto, la domanda andava rigettata sul rilievo che, a stregua di quanto dedotto dallo stesso ricorrente, non sussistevano le condizioni in presenza delle quali poteva operare la revisione prezzi.

Il ricorso principale va rigettato; il ricorso incidentale condizionato è assorbito. Le spese della presente fase vanno poste a carico del ricorrente, risultato soccombente, e a favore dei resistenti costituiti.

Motivi della decisione

Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perchè sono stati proposti avverso la stessa sentenza. Con il primo motivo il ricorrente, lamentando omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5) in riferimento al petitum, art. 99 cod. proc. civ., censura la decisione gravata laddove, nel ritenere che il prezzo dell’appalto fosse stato determinato a corpo, non aveva considerato che la controversia de qua si fondava sulla determinazione del compenso secondo la tariffa del Genio Civile, atteso che l’iniziale previsione contrattuale era stata abbandonata dalle parti che per mutuo consenso avevano adottato il criterio di determinazione del corrispettivo secondo la tariffa surrichiamata: il che aveva trovato conferma nella confessione giudiziale del Presidente della Cooperativa.

Il motivo è infondato.

La sentenza ha innanzitutto precisato che la domanda proposta dall’attore era fondata sul contratto di appalto del 21-11-1984 e sulla successiva integrazione del 30-7-1985; ha quindi stabilito il compenso dovuto per le costruzioni fuori terra, tenendo correttamente presente, ai sensi dell’art. 1657 cod. civ., quella che era stata la volontà contrattuale così come consacrata nel regolamento negoziale di cui si è detto. E invero, nell’esaminare le deduzioni al riguardo formulate dalla curatela che aveva fatto riferimento all’esistenza di accordi successivi modificativi dell’ordinaria pattuizione, la sentenza ha evidenziato che nessuna prova di tali intese era stata fornita dall’attore: in realtà, anche in questa sede la censura difetta di autosufficienza, in quanto del tutto generici sono i riferimenti a tali accordi, non meglio specificati, mentre non è riportato il testo integrale delle dichiarazioni rese dal rappresentante legale della società Cooperativa. Al riguardo va considerato che il ricorrente il quale, in sede di legittimità, denunci l’omessa od erronea valutazione di un documento o di una prova da parte del giudice di merito ha l’onere, a pena di inammissibilità del motivo di censura, di riprodurre nel ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo, il contenuto del documento o le risultanze della prova nella loro integrità in modo da consentire alla Corte, che non ha accesso diretto agli atti del giudizio di merito, di verificare la decisività della censura (Cass. 14973/2006; 12984/2006; 7610/2006;

10576/2003).

Vanno esaminati congiuntamente il secondo e il quarto motivo, essendo strettamente connessi.

Con il secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5) con riferimento all’art. 1321 cod. civ., censura l’interpretazione della dichiarazione "non aver null’altro a pretendere" resa dal N. nei contratti con cui quest’ultimo aveva riscosso dagli acquirenti le somme relative agli immobili che la Cooperativa aveva ceduto in pagamento dei lavori di sistemazione esterna, rilevando che tale espressione era da intendersi diretta solo all’acquirente del locale box e non alla Cooperativa: in effetti, il N., che nulla aveva mai dovuto quietanzare alla convenuta, aveva riscosso il prezzo relativo a 11 appartamenti, mentre avrebbe dovuto ricevere il corrispettivo di 40 appartamenti: i rimanenti 29 locali, che avrebbero dovuto pure essere trasferiti all’attore e in relazione ai quali questi non aveva ricevuto alcuna somma, erano stati in parte venduti a terzi e in parte erano ancora nella disponibilità della Cooperativa.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia l’omessa motivazione sul giudicato interno formatosi relativamente alla portata del contratto di appalto e alla specificazione delle opere interne laddove dalle dichiarazioni rese con la comparsa di costituzione dal nuovo difensore della Cooperativa nel giudizio di primo grado era emerso che le parti avevano fissato concordemente il valore delle opere esterne, stabilendo di adempiere l’obbligazione di pagamento del relativo corrispettivo con la cessione dei 40 boxes e locali commerciali, il cui valore era stato determinato in L. 3.400.000, mentre l’attore aveva ricevuto il trasferimento soltanto di 11 locali, rimanendo creditore del valore di quelli restanti non trasferiti, non dovendo confondersi il valore commerciale degli immobili, trasferiti a titolo di datio in solutum, frutto di accordo transattivo che sfugge a ogni valutazione numeraria con quello delle opere appaltate ed eseguite.

Il secondo e il quarto motivo vanno disattesi.

Occorre premettere che la cosa giudicata è configurabile in relazione agli accertamenti che hanno costituito il presupposto necessario della decisione assunta dal giudice con riferimento al rapporto dedotto in giudizio e che non siano stati oggetto di impugnazione. Ora, è qui appena il caso di considerare che, anche volendo prescindere dal considerare che il ricorrente non specifica neppure quali sarebbero le statuizioni del giudice in relazione alle quali si sarebbe formato il giudicato interno, in realtà proprio dalla decisione della Corte di appello è emerso che la Cooperativa con l’appello aveva censurato la sentenza del Tribunale, denunciando gli errori compiuti dal consulente tecnico d’ufficio che nella determinazione della revisione prezzi, aveva raffrontato il costo delle opere con il valore di mercato degli immobili dopo 10 anni, e aveva calcolato due volte la somma di L. 933.000.000 con cui era stato determinato il costo delle opere esterne. Pertanto, deve escludersi la formazione del giudicato sulla determinazione del valore delle opere esterne nel senso preteso dal ricorrente, secondo cui lo stesso dovrebbe ritenersi stabilito con riferimento al valore degli immobili che, per accordo delle parti, dovevano essere ceduti a titolo di datio in solutum.

La sentenza ha accertato che, in attuazione della cessione deliberata il 5-4-1990 il N., intervenendo negli atti di vendita con i quali la Cooperativa aveva ceduto a terzi i locali cantinati, ebbe a ricevere il relativo prezzo dichiarando di non avere null’altro a pretendere: i Giudici hanno ritenuto che in tal modo le parti avevano dato esecuzione agli accordi relativi al pagamento del compenso dovuto per le opere esterne.

Orbene, le doglianze si risolvono nella censura relativa all’apprezzamento compiuto dai giudici in ordine al regolamento pattizio convenuto dai contraenti circa il pagamento delle opere esterne, dovendo qui ricordarsi che la sentenza ha accertato che con la cessione degli immobili deliberata il 5-4-1990 e con la riscossione degli importi relativi direttamente dal N. che ebbe a riceverli direttamente dagli acquirenti, si era realizzata la datio in solutum con cui le parti avevano inteso estinguere l’obbligazione di pagamento di tali lavori: il motivo, che sollecita la verifica della ricostruzione e della definizione dei rapporti fra le parti in modo difforme dall’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata, si sostanzia nella richiesta dell’ esame e dell’interpretazione dei contratti in questione, che è operazione riservata all’indagine di fatto del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se non attraverso la deduzione della violazione dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., che nella specie non ha formato oggetto di specifica censura.

Con il terzo motivo il ricorrente, lamentando omessa motivazione e violazione di norme di diritto (art. 228 cod. proc. civ.), censura la sentenza impugnata laddove non aveva tenuto conto della confessione giudiziale resa dal rappresentante della Cooperativa in sede di interrogatorio formale.

Il motivo è inammissibile.

La censura difetta di autosufficienza, tenuto conto che il ricorrente si è limitato a riportare uno stralcio delle dichiarazioni rese dal Presidente della Cooperativa mentre avrebbe dovuto trascrivere il testo integrale delle dichiarazioni in modo da consentire alla Corte di verificare la decisività della censura.

Con il quinto motivo il ricorrente, lamentando violazione e, in subordine, falsa applicazione degli artt. 1664 e 1665 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove aveva escluso che fosse applicabile al contratto a corpo la revisione prezzi, tenuto conto che il rischio posto a carico dell’appaltatore conseguente all’invariabilità del prezzo non può operare nel caso di eventi imponderabili e imprevedibili; nella specie, il grave ritardo nell’inizio dei lavori fu determinato dalle lungaggini burocratiche nel rilascio delle concessioni e delle autorizzazioni necessarie per l’inizio dei lavori appaltati.

Con il sesto motivo il ricorrente, lamentando violazione e, in subordine falsa applicazione dell’art. 1362, e segg., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5), denuncia l’illegittimità della sentenza grava laddove aveva ritenuto che il prezzo dell’appalto fosse stato determinato a corpo, quando tale clausola deve essere inequivocabilmente espressa nel contratto mentre nella specie in nessuno degli accordi intercorsi fra le parti era stata pattuita la deroga all’art. 1664 cod. civ..

Il quinto e il sesto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la stretta connessione, vanno disattesi: peraltro, pur se il dispositivo è conforme a diritto, la sentenza impugnata va corretta, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., u.c., nella parie in cui è erroneamente motivata in diritto.

Occorre sottolineare che in materia di appalto, qualora il prezzo sia determinato a corpo e non a misura, l’invariabilità del compenso dovuto all’appaltatore comporta che questi non ha diritto a pretendere la maggiorazione del prezzo per effetto dell’aumento del costo dei materiali e della manodopera nel frattempo intervenuti, dovendo sopportare quelle conseguenze negative che, rientrando nel rischio di impresa, sono insite nella natura di contratto ad esecuzione differita. Tale principio peraltro, se giustifica l’affermazione secondo cui è irrilevante l’errore di valutazione compiuto dall’appaltatore nel determinare la congruità del prezzo dovendo il medesimo tenere conto di tutti gli eventi che possono prevedersi in base alla particolare diligenza che la qualifica professionale gli richiede, non può evidentemente trovare applicazione nel caso in cui, ai sensi dell’art. 1664 cod. civ., comma 1, l’aumento dei costi dei materiali e della manodopera sia stato causato da eventi imprevedibili ovvero da fatti che siano del tutto indipendenti dalla volontà delle parti e che non solo non erano conosciuti ma non potevano neanche essere conoscibili in base alla diligenza professionale. La norma in oggetto costituisce applicazione speciale in materia di appalto dell’art. 1467 cod. civ., che – dettato per i contratti a esecuzione periodica, continuata o differita – consente la riduzione ad equità delle condizioni di contratto, in considerazione del sopravvenuto venir meno della corrispettività del sinallagma funzionale per lo squilibrio fra le prestazioni causato da fatti imprevedibili – al momento della conclusione del contratto – verificatisi durante l’esecuzione del contratto. Dunque, va corretta l’affermazione della sentenza impugnata che, richiamando alcuni precedenti di legittimità (S.U. 2326/197; 6393/1996) ha escluso in via assoluta l’applicabilità della revisione dei prezzi nel caso di appalto a corpo, ritenendo in tal caso legittima la deroga all’art. 1664 cod. civ.: invece, per quel che si è detto, la revisione dei prezzi, prevista dall’art. 1664 cod. civ., opera anche nel caso di appalto a corpo, a meno che le parti, nell’ambito dell’autonomia privata, non abbiano espresso con dichiarazione inequivoca la volontà di rinunciarvi.

Ne consegue che la doglianza formulata con il sesto motivo circa l’interpretazione del contratto a corpo, compiuta dalla sentenza impugnata per escludere la revisione dei prezzi, è ininfluente ai fini della presente decisione, non essendo di ostacolo alla revisione prezzi la semplice previsione del prezzo a forfait, come invece ritenuto dalla Corte di appello.

Ciò posto, la pretesa dell’attore è comunque infondata.

Infatti, deve rilevarsi che le circostanze dedotte dal ricorrente per dimostrare la sussistenza dei presupposti voluti dall’art. 1664 cod. civ., non concretano certamente gli eventi previsti da tale norma, posto che il ritardo dell’Amministrazione nel rilasciare la concessione edilizia e le autorizzazioni necessarie per iniziare l’esecuzione delle opere non integra l’evento imprevedibile o straordinario di cui al citato art. 1664, trattandosi di fatto che poteva e doveva essere prudenzialmente considerato e valutato dall’appaltatore in sede di conclusione del contratto proprio in considerazione della diligenza professionale richiesta dalla qualità di imprenditore edile dal medesimo rivestita.

Pertanto, la domanda andava rigettata sul rilievo che, a stregua di quanto dedotto dallo stesso ricorrente, non sussistevano le condizioni in presenza delle quali poteva operare la revisione prezzi.

Il ricorso principale va rigettato; il ricorso incidentale condizionato è assorbito. Le spese della presente fase vanno poste a carico del ricorrente, risultato soccombente, e a favore dei resistenti costituiti.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi, rigetta quello principale, assorbito l’incidentale. Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei resistenti costituiti delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 13.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 13.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 25-02-2011, n. 4726 Reintegrazione o spoglio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza ex art. 669 bis c.p.c., il Tribunale di Tivoli, sezione di Castelnuovo di Porto, giudicando sulla domanda di reintegra nel possesso della rete fognaria avanzata da T.F. ed altri consociati alla lottizzazione (OMISSIS) contro i componenti della attigua lottizzazione (OMISSIS) e contro la società Ara, respingeva la richiesta per il decorso del termine annuale di decadenza ex art. 1168 c.c..

I soccombenti proponevano appello, resistevano gli appellati e la Corte di appello di Roma, con sentenza 2264/04, accoglieva il gravame richiamando l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la tempestività non deve essere dimostrata dal ricorrente ma da chi eccepisce la decadenza ed, in tema di clandestinità, il termine decadenziale decorre dalla scoperta dell’illecito.

Ricorrono C.E., + ALTRI OMESSI con due motivi, resistono T.F., + ALTRI OMESSI che hanno anche presentato memoria.
Motivi della decisione

Col primo motivo si lamenta violazione degli artt. 100, 101 e 102 c.p.c., per non avere i giudici di primo e secondo grado disposto in ordine alla necessità del litisconsorzio nei confronti delle parti pretermesse.

Col secondo motivo si deducono violazione dell’art. 1168 c.c. e vizi di motivazione sulla decadenza e l’elemento soggettivo.

Non risponde al vero che il primo giudice ha rilevato d’ufficio l’inosservanza del termine annuale.

Fin dal primo atto difensivo si era dedotto che le opere all’origine del lamentato spoglio erano state autorizzate dal comune con concessione n. 37 del 22.7.1997, che prevedeva l’inizio dei lavori entro un anno, pena la decadenza, ma l’inizio effettivo era avvenuto nel 1999.

Non esisteva l’elemento soggettivo. Le doglianze non meritano accoglimento.

In ordine alla prima gli stessi ricorrenti riconoscono che in linea generale l’affermazione della Corte di appello è esatta ma ribadiscono la loro diversa opinione senza indicare tutte le parti pretermesse, senza chiarire l’interesse alla censura rispetto a profili che potrebbero rilevare in sede di esecuzione e senza superare le affermazioni della sentenza secondo cui l’appaltatrice dei lavori di allaccio non assume la veste di litisconsorte necessario in presenza di un rapporto di natura non reale che non nasce da un vincolo plurisoggettivo unico ed indivisibile; quanto agli altri partecipanti alla lottizzazione, proprietari di lotti non edificati, la loro evocazione in giudizio non aveva comportato alcuna irregolarità mentre l’assenza di quelli asseritamene pretermessi non determinava alcun vizio sull’integrità del contraddittorio essendo noto che nel procedimento possessorio non sussiste alcun litisconsorzio necessario tra i coautori dello spoglio o della turbativa.

In ordine alla seconda censura, a prescindere dalla possibilità di eccepire l’intempestività ad istruttoria ormai conclusa, non si impugna compiutamente e non si supera l’affermazione della sentenza (pagine quattro e cinque) secondo cui, in tema di clandestinità dello spoglio, il termine decadenziale decorre dalla scoperta dell’illecito, secondo un criterio di ragionevolezza rispetto alla natura, caratteristiche e visibilità dell’opera abusiva.

Lo stesso Ctu aveva rilevato la presenza di uno strato di copertura del pozzetto nonchè una traccia sull’asfalto verosimilmente realizzata, a suo parere, in epoca antecedente e prossima alla indagine peritale che, come risultava dagli atti di causa, era iniziata nel giugno 2001 (il ricorso è del 10.1.2001).

Quanto all’animus spoliandi, escluso dal Tribunale per la incompatibilità logica con la concessione, proprio la difformità dal progetto licenziato, la scelta di un percorso diverso e l’occultamento del manufatto confermavano l’intenzionalità del risultato conseguito e la piena consapevolezza dell’illecito che si andava perpetrando, dovendosi escludere l’errore scusabile, da ultimo adombrato.

Trattasi di motivazione sufficiente, logica e coerente, cui non si può contrapporre una diversa tesi, con contestuale deduzione di vizi di violazione di legge e di motivazione, in contrasto con la necessaria specificità del motivo e con l’impossibilità di richiedere un riesame del merito. In definitiva il ricorso va rigettato con la condanna alle spese.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, liquidate in Euro 2200,00 di cui Euro 2000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

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T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 09-02-2011, n. 1263 Pubblicità

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Svolgimento del processo

1. Con ricorso notificato in data 1819 maggio 2010, depositato il successivo 1 giugno, la società ricorrente impugna il provvedimento 3 marzo 2010 n. 20862, con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha ritenuto tre pratiche commerciali da essa poste in essere "scorrette", ai sensi degli artt. 20 e 21, co. 1, lett. b) del Codice del Consumo, vietandone l’ulteriore diffusione, ed ha, inoltre, correlativamente irrogato tre sanzioni amministrative pecuniarie dell’importo di Euro 100.000, 70.000 e 100.000.

La società precisa che, avviato un procedimento per la verifica della correttezza di cinque messaggi pubblicitari relativi a cinque diversi prodotti cosmetici – per i quali, ricevuta la comunicazione di avvio del detto procedimento, la diffusione veniva immediatamente sospesa – lo stesso si concludeva con l’adozione dell’atto impugnato, con il quale si è ravvisata la pratica commerciale scorretta in relazione a tre dei cinque messaggi, e precisamente quelli relativi ai prodotti "Liftactiv Retinol HA" a marchio Vichy; "Cellumetric" a marchio Vichy; "Ultralift", a marchio Garnier.

Vengono proposti i seguenti motivi di ricorso:

a) violazione artt. 20, co. 2 e 21, co. 1, lett. b), d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206; errore nei presupposti di fatto e di diritto; difetto di istruttoria; eccesso di potere per insufficienza, illogicità e contraddittorietà della motivazione; poichè l’atto "assume, quale proprio fondamento, elementi istruttori (documentazione L. e parere IFO) che in realtà condurrebbero a conclusioni esattamente opposte", ed infatti: per il prodotto Liftactiv l’IFO "ha confermato la correttezza della classificazione delle rughe eseguita da L. e il fondamento, sulla base delle sostanze contenute nel prodotto, della rivendicazione dell’efficacia del prodotto sulle rughe" ed ha altresì "affermato in maniera esplicita che gli studi prodotti… sono stati ben condotti"; per il prodotto Cellumetric, l’IFO ha giudicato "interessante" lo studio prodotto da L. relativo allo spostamento dei fluidi e non ha contestato la validità dello studio cosmetoclinico. Quanto all’ "efficacia distensiva della pelle a buccia d’arancia", posto che per i consumatori esso è un "inestetismo della cellulite" e che il prodotto è idoneo a incidere su tali inestetismi "va da sé che il consumatore non sia in alcun modo fuorviato nella sua capacità di scelta";

b) violazione artt. 20, co. 2 e 21, co. 1, lett. b) d. lgs. n. 206/2005; errore nei presupposti di fatto; eccesso di potere per difetto di motivazione; ciò in quanto: con riferimento al prodotto Cellumetric, "la pubblicità non rivendica affatto capacità antigravitazionali del trattamento"; per il prodotto Ultralift, poiché la pubblicità "non rivendica affatto la capacità del prodotto di appianare totalmente la rugosità dopo un’ora o dopo 14 giorni", ma si afferma diversamente che esso "distende la pelle in un’ora e riduce visibilmente le rughe anche marcate in 15 giorni"; né la vitamina A è tra gli ingredienti funzionali di Ultralift;

c) violazione artt. 20, co. 2 e 21, co. 1, lett. b) d. lgs. n. 206/2005; errore nei presupposti; eccesso di potere per difetto di motivazione; poiché "le valutazioni tecniche che hanno determinato l’applicazione delle sanzioni… risultano in contrasto con il rilevante e autorevole materiale scientifico presentato da L. nel corso dell’istruttoria"; in particolare le procedure cd. "a doppio cieco", ritenute mancanti, non sono necessarie "quando ad essere valutata è l’efficacia dei prodotti cosmetici"; né l’Autorità ha congruamente motivato, alla luce degli studi condotti dalla ricorrente ed alle risultanze dello stesso parere IFO (v. in part. pagg. 2235), pure, peraltro, in presenza, in un caso, del giudizio di correttezza del messaggio espresso dal Comitato di controllo dello IAP;

d) violazione artt. 20, co. 2 e 21, co. 1, lett. b) d. lgs. n. 206/2005; eccesso di potere per difetto dei presupposti e della motivazione; contraddittorietà della motivazione; ciò in quanto, con riferimento al prodotto Liftactiv, per un verso è "improprio qualificare "pseudoscientifica" la ricerca sulle rughe effettuata da L.; per altro verso, l’Autorità non ha considerato il principio dell’art. 22, co. 3, del Codice del consumo; per altro verso ancora, avendo nella pubblicità utilizzato l’avverbio "visibili" (riferito alle rughe) "rimanda chiaramente alla percezione soggettiva, propria dei test di autovalutazione che sono abitualmente impiegati nella valutazione dell’efficacia dei prodotti cosmetici", di modo che non è possibile indurre in errore circa la presenza di un "riscontro oggettivo"; inoltre, l’Autorità ha valutato diversamente un analogo messaggio riferito ad altro prodotto, non sollevando contestazioni. Con riferimento al prodotto Ultralift, "le modalità espressive impiegate non travalicavano in alcun modo i confini di un’enfasi lecita, propria del mondo della comunicazione dei cosmetici", poiché "è stata solo rappresentata la riduzione delle rughe marcate", né la "voce fuori campo", che ha un impatto superiore a quello delle immagini, "effettua alcun riferimento alla scomparsa o all’appianamento totale delle rughe"; ed anche in questo caso vi è stata una diversa (e quindi contraddittoria) valutazione di messaggi analoghi;

e) violazione art. 27, co. 9 e 13, d. lgs. n. 206/2005; art. 11 l. n. 689/1981, nonchè dei principi generali in tema di sanzioni amministrative; illogicità e irragionevolezza manifesta; errore sui presupposti di fatto e di diritto; contraddittorietà e perplessità della motivazione; carenza di motivazione; ciò in quanto l’Autorità non ha effettuato una "corretta valutazione della gravità e della durata dei comportamenti asseritamente illeciti"; inoltre, la gravità della violazione, con riferimento alla diffusione dei messaggi, appare viziata da contraddittorietà, posto che sono state valutate diversamente durate e mezzi di diffusione.

Si è costituita in giudizio l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che, in particolare con la memoria depositata il 25 ottobre 2010, ha concluso per il rigetto del ricorso, stante la sua infondatezza.

Si è altresì costituita in giudizio l’Associazione Avvocatideiconsumatori, che ha anch’essa concluso per il rigetto del ricorso.

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.
Motivi della decisione

2. Il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, respinto.

Occorre innanzi tutto osservare che con il provvedimento impugnato l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha ritenuto "pratica commerciale scorretta", ai sensi degli artt. 20 e 21, co. 1, lett. b) del Codice del consumo, tre pratiche poste in essere dalla società L.I., e relative ai prodotti "Liftactiv Retinol Ha Vichy", "Cellumetric Vichy" e "Ultralift Garnier" (mentre per due altre pratiche vi è stato accertamento negativo).

Più in particolare:

a) con riferimento al prodotto Liftactiv, l’Autorità ha contestato che lo stesso è stato presentato "inducendo un affidamento su caratteristiche, efficacia e risultati ottenibili attraverso il suo impiego nel trattamento delle rughe che non possono essergli attribuiti nei termini vantati". Si afferma che "diversamente da quanto lasciato intendere dai messaggi attraverso la descrizione dei risultati ottenibili con l’uso del prodotto e ancor più dalle suggestive immagini utilizzate nel filmato, il cosmetico non consente, tuttavia, una scomparsa totale delle rughe, potendo solo renderle meno evidenti". Né è ascrivibile al prodotto "la proprietà di prevenire in toto…la formazione di nuove rughe, potendo lo stesso solo espletare un’azione protettiva rispetto ad una delle cause di insorgenza delle rughe ovvero le radiazioni solari". Infine, "anche l’indicazione di "risultati visibili in quattro giorni… appare suscettibile di censura, in quanto sembra riferirsi ad un riscontro oggettivo laddove in realtà si tratta soltanto di un test di autovalutazione";

b) con riferimento al prodotto Cellumetric, l’Autorità ha contestato che "l’indicazione secondo la quale il prodotto sarebbe modulato sul ciclo metabolico non trova adeguato supporto scientifico", ed anzi il riferimento al detto ciclo "lascia intendere, contrariamente al vero, che il trattamento possa intervenire sulle cause metaboliche che concorrono all’insorgere della patologia o al suo aggravarsi". Né vi è "adeguato sostegno ai vanti di efficacia espressi nei messaggi, anche attraverso una quantificazione in percentuale e centimetrica degli effetti conseguibili in due settimane, lasciando intendere che si tratti di risultati emersi da una sperimentazione clinica";

c) con riferimento al prodotto Ultralift, l’Autorità contesta che "l’efficacia cd. antirughe che può essere legittimamente ascritta al prodotto non corrisponde a quella di un totale appianamento della rugosità dopo un’ora o dopo 14 giorni, come il messaggio indurrebbe a ritenere attraverso la sequenza di immagini che, correlate ai claim di efficacia, ne esemplificano il significato". A tal fine, "gli stessi valori percentuali che accompagnano i claim -"in un’ora distende la pelle 83%" o "in 15 giorni riduce le rughe 78%" – si prestano ad essere interpretati nei termini di una oggettiva quantificazione della riduzione delle rughe vantata, laddove, invece, le stesse rappresentano percentuali di gradimento soggettivo manifestate nel corso di test autovalutativi".

Tali pratiche commerciali sono state giudicate "scorrette" dall’Autorità, con riferimento agli artt. 20 e 21, co. 1, lett. b) del Codice del Consumo, e quindi, come tali, contrarie alla diligenza professionale e false o idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento,economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge. Più in particolare, come è noto, la pratica è ingannevole allorchè "contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea a indurre in errore il consumatore medio" riguardo a taluni elementi, quali tra gli altri (art. 21, co. 1, lett. b), le caratteristiche principali del prodotto, come i vantaggi, i rischi, la composizione, l’idoneità allo scopo o i risultati che si possono attendere dal suo uso ovvero i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto.

Quanto alla idoneità del messaggio a pregiudicare il comportamento economico dei consumatori, questo Tribunale (TAR Lazio, sez. I, 8 settembre 2009 n. 8399), ha già affermato che non occorre verificare la concreta esistenza di un pregiudizio per il consumatore, quanto la potenzialità lesiva del messaggio pubblicitario sulla libera determinazione delle sue scelte.

Più in particolare, con riferimento ad una analoga controversia, questo Tribunale ha avuto modo di osservare che è ingannevole il messaggio pubblicitario che attribuisce alle componenti di un prodotto cosmetico (nella specie, antirughe) caratteristiche e proprietà non ancora sperimentalmente accertate e non fondate su evidenze scientifiche ampiamente condivise ovvero riconducibili alla ripetibilità, statisticamente significativa, delle osservazioni dei ricercatori e, quindi, alla pluralità dei dati sperimentali a sostegno di una determinata ipotesi, che sono proprie del metodo scientifico. In tal modo, la promessa di effetti mirabolanti o, comunque, l’enfatizzazione di risultati assai più ampi rispetto a quelli desumibili dalle sperimentazioni effettuate configura, infatti, un messaggio decettivo per omessa informativa, che impedisce al pubblico di percepire correttamente la reale portata dei benefici prospettati (TAR Lazio, sez. I, 16 dicembre 2009 n. 13023). Ed infatti, laddove si faccia riferimento a effetti clinicamente testati o comunque presentati come oggettivamente accertati, occorre il supporto di una validazione di efficacia particolare, affidata a metodiche scientificamente rigorose ed attendibili anche in termini statistici.

3. Nel caso in esame, il Tribunale osserva, in via generale, che l’Autorità ha condotto una istruttoria ampia ed accurata, con coinvolgimento di soggetti scientificamente autorevoli (IFO), garantendo la partecipazione ed il contraddittorio della società ricorrente, che ha potuto ampiamente esporre le proprie ragioni, anche attraverso la messa a disposizione di accertamenti, consulenze e/o pareri scientifici, volti ad avvalorare l’aderenza del messaggio alla realtà clinicamente accertata del prodotto.

Quanto alle singole censure, il Collegio ritiene opportuno procedere all’esame dei motivi con riferimento a ciascuna delle singole pratiche.

Tanto premesso, il Tribunale osserva che, con riferimento al prodotto LIftactiv, il messaggio stampa afferma "Vichy inventa il trattamento – intervento globale rughe per correggere tutti i tipi di rughe, permanenti, reversibili, embrionali" con "risultati visibili in 4 giorni", mentre nello spot televisivo si afferma che il prodotto "neutralizza le rughe embrionali, attenua le reversibili, riempie le rughe permanenti". Inoltre (v. pag. 3 provv. impugnato) "tali indicazioni sono accompagnate, nel corso del filmato, da una rappresentazione dinamica che simula lo stato del derma al microscopio nelle situazioni descritte e risanate completamente a seguito dell’utilizzo del prodotto. In conclusione si enuncia e contemporaneamente si visualizza in una scritta l’indicazione "risultati visibili in 4 giorni".

Tale essendo il messaggio, appare del tutto evidente come – al di là di ogni valutazione della autorevolezza ed efficacia dei test utilizzati dalla L., ovvero dalla necessità (o meno) di disporne di ulteriori (come anche indicato dall’IFO) – occorre verificare se il prodotto effettivamente consente di raggiungere i risultati promessi ("correggere tutti i tipi di rughe") e se ciò effettivamente possa avvenire nell’arco temporale prospettato (4 giorni).

Il messaggio, in altre parole, supera la normale ed accettabile enfasi che normalmente si accompagna (ed in tal senso si intende tollerabile) al veicolo pubblicitario, sottolineando esso contemporaneamente la assoluta novità del metodo ("Vichy inventa il trattamento intervento globale rughe"), la globalità dell’efficacia, la assoluta tempestività dei (primi) risultati conseguiti.

Ne consegue che, indipendentemente dalla analisi completa dei risultati offerti dall’IFO all’Autorità, non assumono rilievo determinante le considerazioni, ritenute dalla ricorrente positive, da tale Istituto svolte in ordine alla accettabilità della classificazione delle rughe, alla idoneità delle sostanze contenute nel prodotto ad agire sulle rughe medesime, ed infine alla accettabilità degli studi condotti; né rileva se siano da ritenere necessari, o meno, con riferimento ad un prodotto cosmetico, ulteriori studi (definiti "a doppio cieco").

Si intende affermare che l’ampiezza e perentorietà del messaggio afferente alla pratica commerciale – cui si accompagna una evidente induzione a ritenere il prodotto come di assoluta novità nel settore – postula inevitabilmente, sia la dimostrazione della suscettività del prodotto stesso a raggiungere i risultati prospettati, sia il fondamento scientifico delle affermazioni rese.

In tal senso, ed anche con riferimento al caso in esame, ciò che rileva, quindi, non è tanto il presupposto scientifico in ordine al quale l’Autorità afferma l’ingannevolezza dell’azione commerciale, quanto la oggettiva incoerenza tra prodotto e risultati con esso (attraverso di esso) assicurati e/o prospettati, non revocata in dubbio per il tramite delle considerazioni e giustificazioni fornite dal professionista.

E tanto non risulta né dalla documentazione allegata dalla ricorrente, né dalla pur attenta prospettazione offerta, in relazione alla pratica commerciale scorretta relativa al Liftactiv, con i motivi di ricorso sub a), c) e d) dell’esposizione in fatto; motivi che, per le ragioni esposte, devono essere ritenuti infondati.

In particolare, è appena il caso di osservare che l’aggettivo "visibile" riferito al risultato, utilizzato nel messaggio pubblicitario (ed oggetto di un profilo del motivo di ricorso sub d) dell’esposizione in fatto), lungi dal rinviare ad una percezione soggettiva (visibile, cioè, nel senso "da parte di chi vede" e quindi del soggetto), comunica un contenuto "oggettivo" (ciò che si vede e quindi ciò che è), e come tale sicuramente percepibile dall’osservatore (da qualunque osservatore).

In definitiva, non risulta revocato in dubbio quanto costituisce l’osservazione centrale espressa dall’Autorità (e che fonda il suo giudizio in relazione all’art. 21, co. 1, lett. b Codice consumo) circa " i risultati ottenibili attraverso il suo impiego nel trattamento delle rughe che non possono essergli attribuiti nei termini vantati".

4. Considerazioni non dissimili il Tribunale deve effettuare, con riferimento alla pratica commerciale ritenuta scorretta e relativa al prodotto Cellumetric, così pervenendo ad un giudizio di infondatezza dei motivi di ricorso indicati sub lett. a), b) e c) dell’esposizione in fatto.

In questo caso, l’Autorità, sulla scorta della ampia istruttoria svolta (ed anche considerate le osservazioni del professionista) contesta l’indicazione secondo la quale il prodotto sarebbe modulato sul ciclo metabolico, lasciando così intendere che esso possa intervenire sulle cause metaboliche, ed inoltre che non vi è "adeguato sostegno ai vanti di efficacia espressi nei messaggi, anche attraverso una quantificazione in percentuale e centimetrica degli effetti conseguibili in due settimane, lasciando intendere che si tratti di risultati emersi da una sperimentazione clinica" (e cioè "20% degli inestetismi visibili della cellulite" e "1 cm. del giro coscia alto e medio".

Con riferimento a tale contestazione, non assumono particolare rilievo né le considerazioni svolte dall’IFO sull’attendibilità degli studi svolti per conto dell’Oreal, né le considerazioni circa la necessità di ulteriori accertamenti scientifici, posto che è il risultato prospettato come ottenibile per il tramite del prodotto a non essere dimostrato.

In particolare, l’IFO ha attestato, con affermazione che non risulta superata dalle contrarie deduzioni difensive, che lo studio effettuato riguarda lo spostamento dei fluidi che per motivi gravitazionali aumentano alla sera a livello degli arti inferiori, ma che non si tratta di ciclo metabolico, bensì di semplici variazioni fisiologiche dei fluidi dermici, di modo che non è corretto parlare di prodotto anticellulite modulato sul ciclo metabolico.

Anche con riferimento alla pratica commerciale riferita al prodotto Ultralift, il Tribunale deve ritenere infondati i motivi di ricorso ad essa riferiti (motivi sub b), c) e d) dell’esposizione in fatto).

Nel caso ora considerato, il prodotto, evocato come la "migliore crema antirughe", è dichiarato avere l’efficacia di distendere la pelle in 1 ora (83%), e di ridurre le rughe, anche marcate, in 15 giorni (78%), con riferimento ad un test di autovalutazione su 40 donne; il tutto accompagnato da "una sequenza di una simulazione al microscopio che simula le rughe profonde e l’effetto di distensione conseguente all’uso del prodotto, che (dalle immagini) sembra consentire la totale sparizione delle stesse" (v. pag. 6 provv. impugnato).

In questo caso, e contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l’Autorità non ha riferito di un messaggio che comunica espressamente il totale appianamento (o scomparsa) delle rughe, ma di immagini che., sotto la parvenza di scientificità (simulazione al microscopio) tendono a convincere della loro totale scomparsa, accompagnate da percentuali di raggiungimento del risultato che, nei termini esposti nel messaggio, e pur riferite ad un test di autovalutazione, inducono il consumatore a ritenere raggiunto (sia pure nei termini percentuali espressi) un risultato scientificamente testato e non un giudizio soggettivo di gradimento.

Quanto, infine, alla dedotta circostanza del positivo esame dei messaggi pubblicitari da parte del Comitato di controllo dello IAP, il Tribunale osserva che tale differente valutazione, se pure può assurgere ad elemento valutabile sul piano dell’elemento soggettivo della responsabilità da illecito, e quindi spiegare effetti sulla quantificazione della sanzione, non può svolgere alcun influenza sull’autonomia dell’esercizio del potere di accertamento e valutazione dell’Autorità.

Né risultano conferenti le osservazioni proposte, tali da fondare il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione, laddove si assume una valutazione diversa dell’Autorità in casi analoghi.

Ciò in quanto, per un verso, il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione deve essere verificato con riferimento al contesto, di fatto e di diritto, in cui il potere amministrativo è concretamente esercitato e postula una verifica di coerenza del giudizio in relazione ai suoi specifici presupposti, escludendosi – per la stessa natura del vizio – che esso possa emergere, per così dire, "in via comparativa" dal raffronto con altri casi (che, laddove effettivamente identici – profilo non dimostrato nella presente sede – postulerebbero una verifica della diversa figura di eccesso di potere per disparità di trattamento).

5. E’, da ultimo, infondato anche il motivo d ricorso, riferito alla determinazione della sanzione, di cui al punto e) dell’esposizione in fatto.

Nel determinare l’entità di ciascuna delle sanzioni amministrative irrogate, l’Autorità, con valutazione congruamente e non irragionevolmente motivata, ha tenuto conto, innanzi tutto, della "importanza e dimensione economica del professionista" (v. pag. 36 provv. imp.), ed inoltre della gravità della pratica "in ragione della reiterata e vasta diffusione dei messaggi pubblicitari", nonché la loro durata.

A tali fini, occorre osservare che i comportamenti posti in essere dalla ricorrente (con riferimento alla "riconosciuta validità dal punto di vista tecnicoscientifico degli studi e delle sperimentazioni"), lungi dal non essere considerati (come dedotto, v. pag. 46 ric.), rientrano proprio nella valutazione della importanza e dimensione del professionista e, quindi, nella valutazione in concreto della sua condotta sul piano della diligenza.

Né, infine, l’entità delle sanzioni in concreto, considerati gli elementi sopra richiamati e i limiti edittali previsti, si presenta come irragionevole.

Per tutte le ragioni sin qui esposte il ricorso deve essere rigettato. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. I, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da L.I. s.p.a. (n. 4916/2010 r.g.), lo rigetta.

Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 16-12-2010) 01-03-2011, n. 7934

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Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Udine confermava la sentenza del Giudice di pace di quella stessa città che aveva dichiarato Z.F. e M.M. colpevoli dei reati di seguito indicati:

la sola Z., del reato di cui al capo a), per ingiuria nei confronti di N.A., nei confronti della quale aveva proferito le espressioni puttana, troia; e del reato di cui al capo b) ai sensi dell’art. 612 c.p. per avere minacciato alla stessa N. un ingiusto danno, dicendo: ti ammazzo, ti faccio fuori;

la stessa Z. e la M., del reato di ingiuria nei confronti dell’anzidetta N. alla quale avevano rivolto gli epiteti zingara, selvatica, stronzo, maledetta, schifosa.

Conseguentemente le aveva condannate alle pene di Euro 250 e 180 di multa ciascuna, nonchè al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, liquidati nella misura di Euro 500, oltre consequenziali statuizioni.

Avverso la sentenza anzidetta le imputate hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Motivi della decisione

1. – Con unico motivo d’impugnazione la Z. deduce erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), contestando l’assunto del Tribunale secondo cui il termine di prescrizione del reati di competenza del giudice di pace fosse quello di cui all’art. 157 c.p., comma 1.

Identico è il motivo del ricorso proposto dalla M..

2. – La censura è palesemente infondata. E’ principio oramai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice che il termine breve di prescrizione, di cui all’art. 157 c.p., comma 5, non si applica, indiscriminatamente, a tutti i reati di competenza del giudice di pace, puniti – che siano – con sola pena pecuniaria o con le sanzioni dell’obbligo della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità. E’ stato più volte ribadito, in proposito, che la contraria opinio muove da un’erronea premessa, cioè che la norma sostanziale menzionata (nella parte relativa alle ipotesi in cui la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria) si riferirebbe proprio alle fattispecie di reato di competenza del giudice di pace per le quali sono previste le anzidette sanzioni alternative.

Non è vero, infatti, che il riferimento normativo dell’art. 157 c.p., comma 5 riguardi i reati di competenza del giudice di pace puniti con pena alternativa. Sul punto, questa Corte regolatrice ha già avuto modo di statuire che il termine di prescrizione da applicare ai reati di competenza del giudice di pace è quello di cui all’art. 157, comma 1, nel testo novellato dalla L. n. 251 del 2005, art. 6 posto che l’obbligo di permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità sono – in forza della disposizione di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 58 – da equiparare ad ogni effetto giuridico alle pene detentive della specie corrispondente, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 157 c.p., comma 5 (cfr., tra le altre, Cass. sez. 4,24.10.2007, n. 43412, rv. 238301). Peraltro, nel senso dell’esclusione della generale applicabilità della norma anzidetta ai reati di competenza del giudice di pace, si è chiaramente espressa anche la Corte Costituzionale con sentenza n. 2 del 14.1.2008. 3. – Per quanto precede, i ricorsi sono inammissibili.

Non resta che prenderne atto e provvedere alla relativa declaratoria, alla quale conseguono le statuizioni espresse dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.