Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-06-2011) 12-10-2011, n. 36816 Falsità ideologica in atti pubblici commessa da privato

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Svolgimento del processo

1. – Con sentenza del 2 marzo 2010, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Latina – sezione distaccata di Terracina del 9 gennaio 2009, con la quale, per quanto qui rileva, l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 483 c.p., per avere attestato falsamente, in una domanda di definizione di illeciti edilizi presentata al Comune di Terracina, che le opere ivi descritte erano state ultimate entro il 31 marzo 2003. 2. – Avverso tale provvedimento, l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, lamentando: 1) l’erronea applicazione dell’art. 483 c.p., sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe ritenuto atto pubblico la domanda di condono presentata dal privato; 2) la carenza della motivazione nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto irrilevante la successiva rettifica presentata al Comune dal richiedente.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

3.1. – Quanto al primo motivo, trova, infatti applicazione la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la falsa attestazione di un fatto in una domanda di condono edilizio configura il reato di cui all’art. 483 c.p. (ex multis: Sez. 5, 22 novembre 2009, n. 2978/2010; Sez. 5, 19 dicembre 2005, n. 5122/2006; Sez. 3, 24 gennaio 2003, n. 9527; Sez. 5, 22 febbraio 2000, n. 3762).

3.2. – Del pari infondato è il secondo motivo di doglianza, con cui si lamenta che la Corte d’appello ha ritenuto irrilevante la successiva rettifica presentata al Comune dal richiedente.

Deve rilevarsi, infatti, che il reato si è consumato con la presentazione della domanda di condono contenente la falsa attestazione, senza che possa essere attribuita rilevanza, quale causa estintiva del reato o quale elemento sintomatico della mancanza di dolo, a un fatto successivo alla commissione del reato.

4. – Ne consegue il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-04-2012, n. 6596 Parti comuni dell’edificio

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Svolgimento del processo

Provvedendo su due cause riunite, instaurate dalla Carla Maria s.s., di Carla e Maria Borgoglio – di poi mutata in Carla Valeria s.s., di Carla Borgoglio e Valeria Varona la prima nei confronti di T. A., la seconda verso Tu.An. e la Rosella di Turrin A. & C. s.a.s., entrambe dirette all’accertamento dell’appartenenza al condominio di (OMISSIS), di un cortile interno, il Tribunale di Chiavari condannava A. e Tu.An. e la Rosella di Turrin A. & C. s.a.s., a demolire la costruzione in legno realizzata all’interno di detto cortile e ad eseguire altre opere di rimessione in pristino.

Gravata dalle parti soccombenti, detta sentenza era riformata dalla Corte d’appello di Genova.

Riteneva la Corte territoriale, richiamandosi a giurisprudenza di legittimità, che in tema di condominio negli edifici il titolo contrario, idoneo ad escludere dalla comunione un bene oggettivamente destinato all’uso comune e incluso tra quelli di cui all’art. 1117 c.c., è soltanto l’atto istitutivo del condominio stesso, cui abbiano partecipato tutti i condomini, e che a tal fine può rilevare la clausola del contratto di vendita della singola unità immobiliare solo se riprodotta negli atti d’acquisto di tutti gli altri appartamenti. Rilevava, quindi, nello specifico, che il condominio era stato istituito con atto di divisione del 2.8.1971 tra V., N. e C.F., i quali, tra l’altro, avevano convenuto l’attribuzione a questi ultimi due dell’appartamento al piano terra, con annesso cortile di proprietà esclusiva, sicchè erano del tutto prive di rilievo le discrasie tra i successivi atti di cessione delle diverse unità immobiliari facenti parte del condominio, atti alcuni dei quali riportavano il cortile in oggetto come cosa comune, mentre altri lo indicavano come di proprietà esclusiva del titolare dell’appartamento posto al piano terra.

Pertanto, atteso che i T. avevano acquistato quest’ultimo immobile con il cortile di pertinenza dal precedente proprietario esclusivo ( C.F., il quale aveva acquistato la quota della germana N.), con atto del 4.2.1980, trascritto il 28.2.1980, dovevano considerarsi del tutto irrilevanti le mappe catastali, che descrivevano uno stato di fatto anteriore alla costituzione del condominio. A nulla valeva, pertanto, la circostanza che con atto precedente, del 4.11.1978, trascritto il 25.11.1978, N. e C.F. avessero ceduto ai danti causa dell’attrice l’appartamento posto al primo piano dello stabile condominiale, poichè la priorità della trascrizione non poteva "valere a sanare la carenza del diritto trasferito".

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Carla Valeria s.s. di Carla Borgoglio e Valeria Varona, formulando due motivi d’impugnazione, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso A. e Tu.An. e la Rosella, di Turrin A. & C. s.a.s..

Motivi della decisione

1. – In via preliminare va respinta l’eccezione, sollevata dalle parti controricorrenti, di inammissibilità del ricorso per nullità della procura speciale, in quanto rilasciata dalla sola B. C. in relazione ad un atto da ritenersi di straordinaria amministrazione e come tale soggetto, a termini del contratto sociale, alla firma congiunta delle due socie e amministratrici.

1.1. – Infatti, ai sensi dell’art. 2298 c.c., comma 1, i poteri di rappresentanza attribuiti all’amministratore di società in nome collettivo vanno individuati con riferimento agli atti che rientrano nell’oggetto sociale, qualunque sia la loro rilevanza economica e natura giuridica, salve le specifiche limitazioni risultanti dall’atto costitutivo o dalla procura. All’interno di tali atti, pertanto, non si pone alcuna differenza, nemmeno in relazione al carattere dispositivo o conservativo dell’atto stesso, rilevando soltanto l’incidenza che l’atto abbia sugli elementi costitutivi dell’impresa e sulla possibilità di esistenza della stessa, sicchè, qualora lo statuto sociale distingua tra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione, può ritenersi eccedente l’ordinaria amministrazione, in quanto estraneo all’oggetto sociale, l’atto dispositivo che sia suscettibile di modificare la struttura dell’ente e perciò sia con tale oggetto contrastante, essendo esteriormente riconoscibile come non rivolto a realizzare gli scopi economici della società, perchè da essi esorbitante (Cass. nn. 8538/04 e 15422/05).

2. – Con il primo motivo è dedotto il vizio di omessa motivazione su di un fatto controverso e decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, "in relazione all’art. 1117 c.c.". Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello non ha dato contezza di come sia pervenuta ad affermare che all’appartamento di cui al piano terra, di proprietà di Tu.

A., sarebbe annesso in proprietà esclusiva il cortile in questione, proprietà non desumibile, ed anzi esclusa, dai confini dell’appartamento stesso così come descritti nell’atto di divisione del 2.8.1971. In particolare, parte ricorrente sostiene che dal testo di tale atto e dalla planimetria ad esso allegata si ricavi che il confine nord dell’appartamento posto al piano terra e assegnato a N. e C.F., descritto come "distacco a nord cui si accede dal civ. (OMISSIS)", escluda ex se che tale lato del cortile sia annesso in proprietà esclusiva a detto appartamento; che il testo del contratto divisorio, tacendo del tutto il confine sud non assegni quest’ultimo lato del cortile come annesso dell’appartamento citato;

che il confine ovest non riguardi alcuna porzione su quel versante; e che il lato est, descritto con la dizione "la recinzione metallica di separazione delle case civ. (OMISSIS) della stessa via", non può identificare altro che la dividente del solo tratto di cortile lato est col frontistante cortile dei predetti numeri civici di (OMISSIS).

3. – Con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La Corte territoriale, sostiene parte ricorrente, pur avendo correttamente affermato che in tema di condominio negli edifici il titolo contrario, idoneo a escludere dalla comunione un bene oggettivamente destinato all’uso comune, è soltanto l’atto istitutivo del condominio stesso, o un successivo atto modificativo cui abbiano partecipato tutti i condomini, ha, però, erroneamente identificato tale atto istitutivo nella predetta divisione del 1971, la quale, invece, non ha annesso alla proprietà esclusiva dell’appartamento posto al piano terra il cortile in oggetto. I successivi atti di trasferimento delle unità immobiliari individuali non sono fra loro contraddittori, perchè tutti contemplano la proprietà condominiale del cortile.

4. – Entrambi i motivi da esaminare congiuntamente per la comune inerenza alla medesima questione, dedotta in maniera speculare (e dunque sostanzialmente ripetitiva) – sono infondati.

4.1. – Secondo la nota e costante giurisprudenza di questo S.C. il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (Cass. nn. 6064/08, 17076/07 e 18709/07).

In particolare, poi, per quanto attiene alla censura di omessa motivazione circa un punto (ora fatto) controverso e decisivo, il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento. Pertanto, la denunzia in sede di legittimità dell’omesso esame del documento deve contenere l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa (Cass. nn. 5377/11, 4369/09, 11457/07, 3075/06 e 7086/05).

4.2. – Nello specifico la Corte territoriale ha così motivato:

"Poichè nel caso di specie il condominio è stato istituito con la divisione per atto notaio Maggio del 2.8.1971 con il quale C. V. e C.N. e F. ebbero a dividere un compendio di provenienza successoria che comprendeva, tra l’altro, anche tutti gli immobili che erano loro pervenuti per via ereditaria, attribuendoseli negozialmente, e poichè in quella sede i paciscenti statuirono la attribuzione a N. e F. dell’appartamento al piano terra, con annesso cortile di proprietà esclusiva, oltre che dell’appartamento sito al primo piano, se ne trae (…) che del tutto privi(e) di rilievo sono le discrasie tra gli atti di cessione successivamente intervenuti, quanto alle diverse unità immobiliari che compongono il condominio, e che riportano, alcuni la previsione di condominialìtà del cortile ed altri della proprietà esclusiva del medesimo in capo alla unità al pianoterreno" (v. pagg. 9-10 sentenza impugnata).

A fronte di tale motivazione, le censure mosse dalla parte ricorrente, la quale in buona sostanza sostiene che il precitato atto divisorio non autorizzerebbe la conclusione tratta dalla Corte ligure, non sono tali da rendere certa – e non solo possibile o probabile – la soluzione opposta.

Nè il testo contrattuale, nè la planimetria allegata all’atto di divisione, l’uno e l’altra riprodotti nel ricorso in una con la descrizione del cortile conteso così come operata dal c.t.u., consentono di ritenere certa la tesi di parte ricorrente, basata non già su evidenze testuali o topografiche, ma su deduzioni tutt’altro che scontate, ove si consideri, per contro, che nessuno dei confini dell’appartamento al piano terra è descritto riferendosi al cortile, che pure, ed almeno per tre lati (nord, est e sud), stando alla tesi di parte ricorrente, avrebbe dovuto delimitarlo.

Mancano, dunque, i presupposti per cui possa ritenersi dimostrato il vizio motivazionale dedotto, mentre, per quanto concerne la violazione dell’art. 1117 c.c., è sufficiente osservare che parte ricorrente non indica alcuna affermazione di diritto, contenuta nella sentenza impugnata, che contrasterebbe con il suddetto dato positivo o con una qualsivoglia sua interpretazione.

5. – Il ricorso va dunque respinto.

6. – Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali di studio, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 gennaio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 28-05-2012, n. 8449 Regolamento di competenza

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Svolgimento del processo

A seguito di pronuncia del Tribunale per i minorenni delle Marche del 31 ottobre 2007, d’inammissibilità del ricorso avverso il provvedimento dichiarativo dello stato di adottabilità del minore M.A., reso in data 31 maggio 2007, veniva proposto appello davanti alla Corte d’Appello sezione minorenni. Adita la Corte d’Appello, il giudice di secondo grado dichiarava la propria incompetenza in favore del Tribunale per i minorenni, affermando che la pronuncia di primo grado avrebbe potuto essere impugnata soltanto con regolamento di competenza. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10571 del 2009, investita del ricorso per regolamento di competenza, lo accoglieva, ritenendo che la Corte d’appello non avrebbe dovuto emettere una pronuncia declinatoria sulla competenza ma solo giudicare della legittimità o meno della declaratoria d’inammissibilità del Tribunale per i minorenni, con conseguente rinvio per un nuovo giudizio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, che, infine, decidendo anche nel merito della controversia, pronunciava la sentenza impugnata.

Il giudice del rinvio riformava la pronuncia d’inammissibilità del Tribunale per i Minorenni, ritenendo che, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22638 del 2008), avverso i provvedimenti dichiarativi dello stato di adottabilità resi prima del 30 giugno 2007 doveva essere proposto ricorso davanti al Tribunale per i minorenni, in quanto le nuove regole processuali riguardanti la competenza, a causa dei reiterati differimenti dell’entrata in vigore della nuova formulazione della L. n. 184 del 1983, art. 17 (per effetto della L. n. 149 del 2001), erano applicabili solo successivamente a tale data. Da tale premessa, tuttavia, il giudice di secondo grado non faceva discendere la rimessione della decisione sull’impugnazione del decreto al giudice di primo grado, ritenendo che non fosse ravvisabile, nella specie, alcuna delle ipotesi previste dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., e, conseguentemente, provvedeva nel merito, confermando la valutazione di adottabilità del minore contenuta nel decreto impugnato. Il giudice d’appello, premesso che il minore era in affido fin dal 1998, evidenziava che l’inidoneità dei genitori naturali e le gravi conseguenze sull’equilibrio psico fisico del medesimo producibili da un rientro nella famiglia naturale,, erano state confermate da due consulenze tecniche d’ufficio, l’ultima delle quali effettuata nel 2011, disposta dalla Corte stessa. Dalle risultanze complessive dell’istruzione svolta dal Tribunale per i minorenni era univocamente emersa una condizione di patologia psichica della madre naturale, una condizione d’immaturità del padre, una persistente conflittualità tra i genitori, una forte compromissione delle capacità genitoriali che aveva determinato il ricovero in comunità anche dei due fratelli più grandi nonchè una episodicità di rapporti del minore con i genitori naturali, l’inesistenza di un rapporto significativo con loro ed infine la necessità di cure del minore medesimo, in quanto affetto da alopecia e balbuzie. Precisava infine la Corte d’Appello che la condivisibile valutazione delle consulenze tecniche era indipendente dall’inserimento del minore nella famiglia affidataria, il cui distacco avrebbe comunque determinato conseguenze traumatiche.

Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso i genitori naturali del minore, affidandosi a tre motivi. Nel primo motivo hanno lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 330 cod. civ., per illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo del provvedimento, perchè il giudice d’appello, pur avendo accolto la censura relativa all’erronea dichiarazione d’inammissibilità del ricorso avverso il decreto di adottabilità del Tribunale per i Minorenni, in modo del tutto contraddittorio avrebbe provveduto nel merito invece di disporre il rinvio della causa al giudice di primo grado, così violando il principio del doppio grado di giurisdizione.

Nel secondo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., in relazione alla L. n. 18 del 1983, art. 17. Il giudizio di adottabilità, secondo il regime giuridico contenuto nell’originaria formulazione della L. n. 184 del 1983, anteriore alle modifiche introdotte con la L. n. 149 del 2001, non contemplava la partecipazione e/o la mera previsione della partecipazione della famiglia naturale fino all’emanazione del decreto. Proprio per questa ragione era prevista la proposizione dell’opposizione, in contraddittorio delle parti, da svolgersi secondo le regole costituzionali del giusto processo. Con la L. n. 149 del 2001, al contrario, il procedimento destinato a sfociare in un provvedimento relativo all’adottabilità del minore è caratterizzato dal contraddittorio sin dalla sua apertura. Per questa ragione è stata prevista esclusivamente l’impugnazione alla Corte d’Appello. Nella specie, essendo mancato il contraddittorio nella prima fase del procedimento con le parti private, l’omesso rinvio al primo giudice deve essere considerato del tutto contrastante con il dato normativo.

Nel terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 8, in quanto la sentenza impugnata è fondata su una motivazione palesemente contrastante con i presupposti di legge fissati da tale norma dal momento che i genitori naturali non hanno smesso di interessarsi del proprio figlio ed hanno eseguito tutte le prescrizioni dei Servizi sociali, mentre questi ultimi hanno omesso di depositare qualsiasi relazione relativa al minore dal 2003, data in cui i genitori naturali hanno visto per l’ultima volta il minore, essendo state respinte tutte le istanze di visita formulate al Tribunale per i Minorenni. Viene inoltre censurato d’illegittimità il decreto di adottabilità e l’intera procedura, attesa la mancanza di un’indagine sulle possibilità di assistenza morale dei parenti fino al quarto grado. Infine è contestata la legittimità dei quesiti sottoposti al consulente tecnico d’ufficio nominato dalla Corte d’Appello in quanto relativi alla capacità genitoriale dei genitori naturali, da valutare "ora per allora" e alle conseguenze del distacco del minore dalla famiglia affidataria ed anche censurate le conclusioni della consulenza, recepita dal giudice di secondo grado, perchè fondate su un’indagine svolta a distanza di molti anni dall’ultimo incontro con il minore. E’ stato aggiunto dai ricorrenti che le parti sono risultate vittoriose nelle opposizioni allo stato di adottabilità degli altri due figli ormai maggiorenni e che le condizioni di adottabilità del minore non sussistono neanche alla luce dei nuovi presupposti di legge, in quanto le decisioni giurisdizionali impugnate sono in realtà fondate solo sulla convinzione, non suffragata da riscontri probatori, di non far rientrare il minore nella famiglia d’origine e di negargli la possibilità di scegliere liberamente.

Motivi della decisione

I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente avendo entrambi ad oggetto, sia pure con diversa prospettazione dei vizi, la mancata rimessione del giudizio davanti al Tribunale per i Minorenni, dichiaratosi erroneamente incompetente a decidere sull’opposizione al decreto di adottabilità. La parte ricorrente ritiene che la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione, nel caso di specie, abbia determinato la violazione dei principi costituzionali del giusto processo, in quanto nel regime giuridico ante vigente del procedimento relativo alla dichiarazione dello stato di adottabilità (prima dell’entrata in vigore della L. n. 149 del 2001) l’emanazione del decreto interveniva in assenza di un effettivo contraddittorio, introdotto invece con la novella del 2001. Le censure si rivelano palesemente infondate alla luce degli univoci orientamenti di legittimità relativi alla tassatività delle fattispecie di rimessione al giudice di primo grado e alla generale applicazione del principio dell’effettività della lesione dei diritti processuali che informa l’interpretazione dei principi costituzionali del giusto processo. In ordine al primo dei due profili, è consolidato il principio secondo il quale l’erronea dichiarazione d’incompetenza, da parte del giudice di primo grado, non rientra tra le ipotesi di rimessione al primo giudice, tassativamente previste dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., essendo stato abrogato, dal 1/1/1993, comma 4, dell’art. 353 ( L. n. 353 del 1990, ex art. 89) che tale rimessione prevedeva nella sola ipotesi in cui il pretore, in riforma della sentenza del conciliatore, avesse dichiarato la competenza (Cass. n. 15430 del 2004 e 12455 del 2010). E’ stato inoltre ribadito, sotto il secondo profilo, che il principio del doppio grado di giurisdizione non ha garanzia costituzionale e, conseguentemente (la tassatività delle fattispecie previste negli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., è conforme a Costituzione (Cass. 18691 del 2007). E’ stato ulteriormente chiarito con la pronuncia n. 21233 del 2011 che l’obbligo del giudice d’appello di valutare il merito della controversia nel contraddittorio delle parti e nel rispetto del loro diritto di difesa esclude l’astratta configurabilità di una violazione degli artt. 3 e 24 Cost.. Infine, perfettamente coerente alla fattispecie dedotta nel presente giudizio è il principio, del tutto condivisibile, contenuto nella motivazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 225958 del 2010, nella quale vengono esaminate le due differenti ipotesi di erronea statuizione sulla competenza da parte del giudice di primo grado e indicate le diverse conseguenze che dall’una o dall’altra derivano. Nell’ipotesi di erronea dichiarazione di competenza e decisione nel merito del giudice di primo grado, il giudice d’appello deve dichiarare l’incompetenza del giudice adito, indicare quello competente e disporre la riassunzione, salvo il caso in cui il giudice competente corrisponda a quello d’appello e vi sia istanza apposita per la decisione nel merito ed in primo grado con instaurazione del contraddittorio sul punto (Il principio trova conferma anche in Cass. n. 26462 del 2011).

Nell’altra speculare ipotesi, invece, nella quale il giudice di primo grado abbia declinato erroneamente la competenza (com’è accaduto nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, ancorchè con pronuncia d’inammissibilità emessa dal Tribunale per i minorenni), il giudice d’appello è effettivamente quello che avrebbe dovuto essere e, conseguentemente, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 cod. proc. civ., previa dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado a causa della non corretta declinatoria sulla competenza, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, tale giudice deve decidere nel merito. Deve, pertanto, concludersi per il rigetto dei primi due motivi di ricorso.

Anche il terzo motivo non risulta meritevole di accoglimento. In esso si lamenta, al di là della formale formulazione di una duplice censura di violazione di legge e di vizio della motivazione, un’errata valutazione dei fatti sulla base dei quali è stata ritenuta sussistente dal giudice di secondo grado la situazione di abbandono, non transitoria e non dovuta a causa di forza maggiore, richiesta dalla L. n. 184 del 1983, art. 8, per dichiarare lo stato di adottabilità di un minore. Pertanto deve essere dichiarata inammissibile la parte del motivo che denuncia il vizio di violazione di legge relativo all’applicazione di tale norma, perchè fondato esclusivamente su censure relative alla selezione e valutazione degli elementi di fatto posti a base della decisione, mentre la formulazione del vizio ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3, richiede necessariamente la deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge (Cass. 16698 del 2010) e non è compatibile con la contestazione delle risultanze di causa. Deve, invece, ritenersi ammissibile la censura relativa al vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Al riguardo occorre rilevare che i ricorrenti hanno indicato come elementi di fatto contrastanti la situazione di abbandono riconosciuta come esistente e continuativa dalla Corte di appello le seguenti circostanze:

a) La reiezione di molteplici richieste di colloquio o visita del minore rivolte agli organi competenti delle quali, tuttavia, non c’è nè indicazione nè traccia documentale nel ricorso e che sono fermamente smentite dalla sentenza di secondo grado la quale, al contrario, riferisce dell’episodicità dei rapporti tra genitori naturali (ed in particolare la madre) ed il minore e la conseguente mancata instaurazione di un legame affettivo con il minore medesimo, "dovuta alla mancanza d’iniziativa assunta in tale senso dai genitori". b) La mancanza di relazioni dei servizi sociali dal 2003. Si tratta di un elemento che difetta della decisività soprattutto se posto in correlazione con il duplice univoco riscontro delle consulenze tecniche eseguite rispettivamente nel 2006 e nel 2011, ovvero rispettivamente poco prima dell’emissione del decreto di adottabilità e poco prima della pronuncia impugnata, dalle quali, come esaurientemente riportato in sentenza, emerge un quadro univoco d’inidoneità genitoriale derivante dalle singole personalità dei genitori (madre affetta da patologia psichiatrica e padre dipendente dalla moglie), dalla persistente conflittualità tra di essi, sfociata in numerosi e reiterati interventi della Polizia di Stato e dei Servizi sociali (fin dal 2001), dalla mancanza di supporto affettivo e relazionale in cui si è trovato il minore lasciato spesso solo fin dalla più tenera età, dalla permanenza di tale condizione di compromissione delle capacità genitoriali al momento dell’emissione del decreto di adottabilità. c) La mancanza di un’indagine sulle possibilità di assistenza morale e materiale da parte dei parenti fino al quarto grado. La deduzione difetta radicalmente di decisività in quanto priva dell’indicazione specifica di tali figure parentali e della manifestazione di disponibilità espressa nei precedenti gradi di giudizio.

Al riguardo deve evidenziarsi il rigore manifestato negli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte in ordine all’accertamento delle condizioni necessarie per escludere lo stato d’abbandono anche in presenza di figure parentali disponibili. Nella pronuncia n. 2102 del 2011 è stato sottolineato come neanche la mera disponibilità possa essere ritenuta elemento sufficiente, essendo necessario che venga integrata dall’accertamento dell’idoneità a garantire condizioni di assistenza e di crescita adeguate e che siano state positivamente instaurate relazioni psicologiche ed affettive significative (Cass. n. 6629 del 2002 e 11993 del 2002). d) L’illegittimità dei quesiti relativi all’ultima consulenza d’ufficio svolta dalla Corte d’appello. Premessa l’incensurabilità in sede di legittimità della valutazione delle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, ove la condivisione sia adeguatamente motivata nella sentenza impugnata, le conclusioni dell’elaborato sono state poste in correlazione con le altre circostanze di fatto già acquisite e costituenti un continuum univoco di riscontri relativi all’inidoneità dei genitori naturali, ed, inoltre, il giudice d’appello ha specificamente richiesto ai consulenti d’ufficio di valutare la situazione al momento della dichiarazione di adottabilità, oltre che al momento dell’accertamento peritale. Nella sentenza impugnata si afferma, infatti: "Nell’elaborato (…) si ribadisce (premessa la già individuata presenza di una patologia psichiatrica, definita quale reazione psicotica breve in capo alla madre e l’altrettanto già rilevata personalità immatura del padre) la forte compromissione delle capacità genitoriali dei genitori naturali, con riferimento sia al periodo attuale sia a quello relativo all’epoca della dichiarazione di adottabilità". e) La conclusione positiva per i genitori naturali delle cause di opposizione allo stato di adottabilità degli altri figli della coppia. Anche tale elemento difetta della decisività dovendo la condizione d’idoneità essere considerata con riferimento al minore e al momento della decisione sull’adottabilità del medesimo. Deve, comunque, osservarsi che la Corte d’appello da atto della circostanza che gli altri figli ormai maggiorenni convivono con i genitori, ma sottolinea la diversità della loro situazione rispetto a quella del figlio più piccolo con il quale non risulta essere stato instaurato uno stabile rapporto affettivo con i genitori naturali, per le ragioni già ampiamente illustrate, coerentemente con i principi anche di recente ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 7115 del 2011) secondo i quali la mera volontà dei genitori naturali di riassumere il proprio ruolo genitoriale (pur se rilevante, non è sufficiente ad escludere la ricorrenza delle condizioni dello stato di abbandono quando sia accertato che la vita offerta al figlio non sarebbe in grado di garantire il suo equilibrio psico fisico.

Pertanto anche se la L. n. 184 del 1983, art. 1 (nel testo novellato dalla L. n. 149 del 2001) attribuisce al diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine un carattere prioritario, considerandola l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psico fisico; e mira a garantire tale diritto attraverso la predisposizione d’interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare, come ribadito anche di recente da questa Corte (Cass. 1837 del 2011), può configurarsi lo stato d’abbandono quando non sia sopravvenuta l’autonomia genitoriale necessaria e, pur dopo i necessari e reiterati interventi dei servizi sociali, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità dei minore di uno stabile contesto familiare, anche in presenza di un’evoluzione dei rapporti tra genitore naturale e minore.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto, senza statuizione sulle spese, attesa la mancata costituzione in giudizio delle controparti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

A norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, dei minori e dei parenti, in quanto imposto dalla legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-10-2011) 06-12-2011, n. 45335 Costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, con sentenza emessa il 04/12/09, confermava la sentenza del Tribunale di Napoli, in data 23/09/08, appellata da S.A.C., imputata, fra l’altro, dei reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), artt. 64, 71, 65, 72, come contestati in atti ai capi A) e B) della rubrica e condannata alla pena di mesi cinque di arresto ed Euro 21.000,00 di ammenda; pena sospesa. L’interessata proponeva ricorso per Cassazione, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e). In particolare la ricorrente esponeva:

1. che non ricorrevano gli elementi costitutivi della contravvenzione di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 71, 65, 72 trattandosi di opere non realizzate in cemento armato nè con strutture metalliche;

2. che non ricorrevano gli elementi costitutivi del reato di cuoi al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), trattandosi di manufatto pertinenziale in ordine al quale non era necessario il permesso di costruire;

3. che la pena inflitta era eccessiva non proporzionata all’entità dei fatti ed alla personalità dell’imputato;

4. che, comunque, i reati erano prescritti, essendo maturato il relativo termine di prescrizione.

Tanto dedotto, il ricorrente chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata.

Il P.G. della Cassazione, nella pubblica udienza del 19/10/011, ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata per prescrizione del reato.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato nei termini di cui in motivazione.

Il termine massimo di prescrizione relativo ai residui reati per cui vi è stata condanna (anni quattro e mesi sei, in relazione a fatti commessi sino all'(OMISSIS)) è maturato in data 08/01/010, con conseguente estinzione dei reati medesimi.

Il ricorso non è manifestamente infondato, poichè le censure dedotte nell’impugnazione – specie quelle attinenti alla sussistenza della responsabilità penale dell’imputata in relazione alla contravvenzione di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 71, 65, 72 ed alla determinazione della pena – ove non fosse già maturata la prescrizione, andavano esaminate nel merito, per valutare la fondatezza /o meno delle stesse. Non è preclusa, pertanto, in sede di legittimità la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione dei reati, anche se maturata in epoca successiva alla sentenza impugnata, come nella fattispecie in esame.

Va annullata, pertanto, la sentenza della Corte di Appello di Napoli in data 04/12/09, perchè i residui reati di cui ai capi A) e B) sono estinti per prescrizione.

P.Q.M.

La Corte:

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio per essere i reati residui estinti per prescrizione.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.